Lucio Caracciolo, la Repubblica 27/8/2008, pagina 1., 27 agosto 2008
Da ieri Ossezia del Sud e Abkhazia sono tornate nell´impero russo. Riconoscendone l´indipendenza, Mosca le rende totalmente dipendenti da se stessa
Da ieri Ossezia del Sud e Abkhazia sono tornate nell´impero russo. Riconoscendone l´indipendenza, Mosca le rende totalmente dipendenti da se stessa. Così autolegittimandovi la presenza dei propri soldati in quanto peacekeepers. Tanto per essere chiaro, il leader sud-ossetino Eduard Kokoity ha annunciato che sul territorio della neorepubblica sarà costruita una base militare permanente dell´Armata russa. Cala così il sipario sulla prima fase della guerra scatenata fra il 7 e l´8 agosto dal presidente Saakashvili, contro il parere ufficiale del governo americano, e soprattutto contro gli interessi della Georgia, ormai amputata delle province che s´illudeva di recuperare armi in pugno. Per rimettere piede a Tskhinvali e a Sukhumi – e probabilmente anche nell´indefinita "area di sicurezza", ben oltre il confine dell´Ossezia meridionale, conquistata dalle truppe di Mosca – i georgiani dovranno aspettare la prossima guerra mondiale o il suicidio della Russia. Se localmente la partita sembra chiusa, su scala regionale e globale è appena cominciata. Le poste in gioco sono chiare: si tratta di stabilire se Caucaso e Mar Nero sono zone di primaria influenza americana o russa, ed eventualmente dove passa il confine fra i due mondi. Soprattutto, calerà una nuova cortina di ferro o alla fine prevarrà la logica della pacifica competizione/collaborazione fra le maggiori potenze? Insomma, americani ed europei intendono riconoscere alla Russia, in nome di una "dottrina Monroe" rovesciata, un suo impero esterno, esteso su parte dei territori già sovietici e zaristi, oppure no? E se no, quali sono le nostre "linee rosse"? Una volta stabilito che nessun occidentale intende morire per Tskhinvali, e nemmeno per Tbilisi, per chi e per che cosa saremmo eventualmente disposti a batterci? Se invece intendiamo concedere alla Russia la sua piccola rivincita caucasica, dopo averla umiliata per vent´anni su ogni possibile scacchiere, per poi costruire insieme un nuovo equilibrio eurasiatico, su quali basi intendiamo metterci d´accordo? Per avere una risposta, occorrerà probabilmente attendere il prossimo presidente americano. A meno di altre follie o incidenti sempre possibili quando le linee di demarcazione fra gli schieramenti militari restano vaghe. Per adesso, ai fatti russi gli occidentali oppongono parole o gesti poco più che simbolici. "Deplorazioni" di rito a parte, l´arco delle reazioni euroatlantiche al riconoscimento russo delle repubbliche separatiste va dalla proposta di una coalizione internazionale "contro l´aggressione russa in Georgia", lanciata dal ministro degli Esteri britannico David Miliband, all´annuncio (ironico?) del suo collega italiano che Roma fornirà uno dei dodici osservatori europei da schierare ai confini dell´Ossezia del Sud. Certo, Washington ha mandato qualche nave militare a battere bandiera nel Mar Nero e a garantire forniture umanitarie. Se non ha già cominciato a farlo, si dedicherà presto a rimettere in sesto le Forze armate georgiane, che pure aveva foraggiato e addestrato, non intuendo che il governo di Tbilisi, nel suo solipsismo irredentista, le avrebbe mandate al massacro. Di qui a compiere scelte strategiche su come fronteggiare Mosca, molto ne corre. Oggi solo la Russia può sconfiggere se stessa in una partita di cui ha stravinto la prima mano. Grazie ai georgiani. Ma non troverà sempre un Saakashvili ad invitarla a nozze. Finora Putin ha fatto quanto annunciato urbi et orbi dopo l´indipendenza del Kosovo. Attingendo, certo non per caso, alla stessa retorica usata dagli americani a difesa della causa kosovara, accuse di "genocidio" incluse. Da adesso in poi Mosca dovrà però calcolare con molta prudenza le ripercussioni di ogni sua mossa nell´area contesa fra sé e la Nato. Sapendo di non disporre, nel medio-lungo periodo, né del soft power né delle altre risorse utili a sfidare l´America in un gioco a somma zero. E non volendo certo ridursi a super-Stato canaglia, come nei sogni dei più scatenati fra i russofobi baltici. La prossima partita si gioca in Ucraina. Per Putin quello non è nemmeno uno Stato, ma un insieme di territori eterogenei di cui alcuni a suo tempo ceduti da Mosca in prestito con diritto di riscatto. A cominciare dalla strategica Crimea, non meno russofila di Abkhazia e Ossezia del Sud, offerta in comodato nel 1954 da Krusciov all´Ucraina sovietica. Se Kiev vorrà entrare nella Nato, ha lasciato intendere Putin durante l´ultimo vertice atlantico, lo farà senza le sue regioni "russe". Considerando che finora la maggioranza degli ucraini è contraria all´ingresso nell´Alleanza Atlantica – e visto il "tradimento" della già "pasionaria" arancione, Yulia Timoshenko, a quanto pare disposta a scambiare l´appoggio russo alle prossime elezioni presidenziali con la rinuncia a sfidare Mosca sulla Nato – Putin parte in vantaggio. Rafforzato dalla dimostrazione di saper impiegare la forza per difendere le sue "linee rosse" e dalla parallela ostentazione di impotenza degli Stati Uniti. Gli attuali successi russi sono figli anzitutto della debolezza americana e delle divisioni fra gli europei. Mosca sa quel che vuole. E agisce di conseguenza. Americani ed europei no, probabilmente perché in fondo intuiscono di volere cose diverse. Solo ricompattandosi l´Occidente potrà recuperare parte del terreno perduto. Non è facile, visto il vuoto di leadership a Washington e le radicate differenze di percezioni e di interessi fra "Vecchia" e "Nuova Europa" riguardo alla Russia. La storia insegna che per mettere d´accordo europei e americani serve una minaccia esterna. A suo tempo, quella sovietica. Oggi le nostre opinioni pubbliche non appaiono troppo sensibili alle zampate dell´orso russo. A meno che, a torto o a ragione, non ci sentissimo minacciati nella continuità degli approvvigionamenti di idrocarburi che via Russia alimentano le nostre economie. Certo, dopo la spartizione della Georgia, i progetti occidentali di oleodotti e gasdotti alternativi a quelli di classica matrice russa appaiono piuttosto fantasiosi. Ma è anche possibile che polacchi, svedesi e baltici, con l´appoggio americano, si rivalgano sabotando Nord Stream, il grandioso progetto di gasdotto sottomarino russo-tedesco, dai forti connotati geopolitici. Oggi va di moda richiamare la guerra fredda. Il paragone è deviante. Per mille motivi, ma in specie per due. Nel mondo bipolare, Saakashvili e i suoi pari non avrebbero mai potuto disobbedire ai rispettivi padrini (una volta, sul fronte opposto, ci provò Castro e per poco non scoppiò la guerra atomica). E soprattutto, mentre a quei tempi americani e sovietici erano l´alfa e l´omega dell´alfabeto globale, oggi americani e russi sono protagonisti fondamentali (i primi ben più dei secondi), ma non unici, sul palcoscenico internazionale. Negli ultimi anni a Washington ci si è infatti pochissimo occupati di Russia, molto più di Cina, India o radicalismo islamico. Nell´illusione di aver messo l´orso in gabbia, dopo avergli tagliato le unghie. Ma un impero di quelle dimensioni e con quella storia o viene totalmente distrutto o è destinato a rinascere, entro limiti e condizioni nuove. La sorpresa non è il ritorno di Mosca. il fatto che non ce l´aspettassimo. Finché non decideremo se abbracciare o soffocare il nuovo impero russo, e faremo seguire alle parole i fatti, sarà solo l´ingordigia o l´imprudenza del Cremlino a frenarne la scalata ai vertici delle gerarchie globali. Mentre l´Occidente resterà una figura retorica, pallida memoria del vittorioso schieramento che fu. Lucio Caracciolo