Ettore Mo, Corriere della Sera 24/8/2008, pagina 18, 24 agosto 2008
Caracas. Non avesse indossato pantaloni beige e maglietta bianca, come invece aveva fatto quel pomeriggio del primo agosto 2003, Javier Antonio Carmona sarebbe ancora vivo e avrebbe oggi trent’anni
Caracas. Non avesse indossato pantaloni beige e maglietta bianca, come invece aveva fatto quel pomeriggio del primo agosto 2003, Javier Antonio Carmona sarebbe ancora vivo e avrebbe oggi trent’anni. Invece riposa ormai da cinque nel cimitero El Hatillo di questa capitale dove le fosse sono zolle d’erba tenera in un grande prato all’inglese, appena contrassegnate da una targhetta su cui sono incisi il nome del defunto più le date di nascita e di morte. Quasi sempre una vita molto breve. Ma i poliziotti, che nel quartiere stavano dando la caccia ad un pericoloso bandito e disponevano solo di quel dato labile circa l’abbigliamento per individuarlo, si accanirono contro il povero Javier riducendolo in fin di vita a colpi di pistola. «Un errore imperdonabile – protesta la madre della giovane vittima, Lesbi Carmona, venuta a depositare sulla tomba un gran mazzo di fiori gialli ”. In tv anche il direttore della polizia sostenne che era stato ucciso un delinquente, facendo il nome di mio figlio. Ne è seguita un’indagine ma dopo cinque anni non è stata ancora avviata la causa in tribunale. Durante le indagini preliminari un poliziotto è fuggito in Spagna. Sono comunque tutti a piede libero. Un anno e mezzo fa, quattro studenti dell’Università Santa Maria vennero uccisi. Grande scandalo ma nessuna condanna. Siamo nel Paese dell’impunità permanente». Un’altra brutta storia di violenza la racconta Diomedis Paredo, una signora di 33 anni che ha perso il fratello di ventuno, Ronnie, ucciso dalla polizia per strada. Punizione, pare, per un banale diverbio scaturito attorno a una bancarella del mercato. «Te l’avevo detto che ti avrei fottuto» avrebbe gridato l’agente al ragazzo mentre stramazzava a terra. Storia aggravata da un particolare agghiacciante: per far credere che s’era trattato di un conflitto a fuoco e non di un crudele capriccio personale, il poliziotto tentò di ficcare una rivoltella in mano alla sua vittima, agonizzante sul selciato. «Ma non ce la fece – precisa ora la Paredo – perché mio fratello teneva il pugno chiuso». Ora sono in molti a chiedersi che cosa sia successo in questo Paese dove violenza, impudenza, corruzione e violazione dei più elementari diritti umani vanno a braccetto come scolaretti disciplinati e spavaldi; e come sia avvenuto che una città come Caracas, in tempi remoti definita «la succursale del cielo» sia diventata «la succursale della morte»: certo, la più violenta capitale del continente. Secondo i dati forniti dagli esperti, in Venezuela la criminalità avrebbe raggiunto il suo massimo livello nel periodo 2006-2007, alimentata soprattutto dal narcotraffico e dall’incontenibile espansione del mercato delle armi. Per i sociologi, questa «escalation» della violenza va anche messa in rapporto col processo di urbanizzazione del Paese, inarrestabile dagli anni Cinquanta ad oggi. Afferma Roberto Briceño, direttore dell’Observatorio Venezolano de Violencia, che si avvale della collaborazione di quattro università: «Nel 1998, l’anno in cui Chávez vinse le sue prime elezioni presidenziali, vennero commessi 4.550 omicidi. L’anno scorso furono 13.200. In 10 anni si sono triplicate le cifre. Le morti violente avvengono nei barrios (gli agglomerati urbani) più poveri dall’80 al 90 per cento. Nel 1998 la percentuale era di 19 omicidi su 100 mila abitanti. Nel 2006 salì a 49. In Argentina sono 9, mentre in Brasile si aggirano sui 23 e in Messico sui 24 ogni centomila abitanti». Dati allarmanti, che trovano conferma nella vita quotidiana. Basta fare un salto, la notte, fino al pronto soccorso o centro d’emergenza di Caracas per avvertire una fitta ragnatela di brividi nella schiena. Dalle 8 di sera alle 7 del mattino assisti a una processione di poveracci che arrivano sanguinanti alla soglia del padiglione, per lo più con ferite di «arma bianca», come coltelli, catene o vetri di bottiglie spezzate. Oltre che per il dolore, molti barcollano per sbronze ataviche emanando l’effluvio di aliti pestilenziali. Non ci sono sempre brande o lettini disponibili e bisogna attendere il proprio turno su una sedia. Come succede ad una coppia di coniugi, accovacciati l’una accanto all’altro. L’uomo perde sangue dalla testa e dal ventre, che la moglie gli ha squarciato con un collo di bottiglia durante una rissa. Ma adesso lei lo accarezza e lo bacia e gli terge il sangue dal viso, tutta affettuosa e pentita. Il chirurgo dice che fino a quattro anni fa c’erano circa 30 morti la settimana: «Ma adesso – aggiunge – solo durante il weekend abbiamo dai 40 ai 50 morti. I miei medici fanno turni di 36 ore con uno stipendio da fame e non stupisce che molti di loro vadano a lavorare all’estero, dove non si verificano questi massacri quotidiani e notturni, spesso provocati dall’alcol». In un Paese che registra più di 13 mila omicidi all’anno, il problema della sicurezza (o, piuttosto, dell’insicurezza) è uno dei più gravi. Avrebbero dovuto essere prese delle misure, come un aumento dei giudici e un rafforzamento del sistema giuridico, che invece – lamenta l’opposizione – non sono state applicate: col risultato che è ulteriormente aumentata l’impunità. C’è gente, a Caracas, che nel giorno di paga non sale sui minibus per paura di essere subito «ripulita» del proprio misero salario. Ma ci sono luoghi dove questo timore, accompagnato da una sensazione di impotenza, è ancora più intenso: uno di questi si chiama Petare ed è uno dei barrios più grandi ed anche dei più pericolosi, arroccato su una cresta di montagne boscose e rocciose con circa un milione di abitanti sui quattro che costituiscono l’intera popolazione della capitale. I turisti sono vivamente sconsigliati dal mettervi piede per non incorrere in qualche brutta avventura, dato l’alto tasso di criminalità (omicidi, rapine, furti, sequestri) che il torvo promontorio è in grado di vantare. Le condizioni della polizia, disposta a scortarci in macchina sul luogo, era che Luigi, Piero – la nostra guida – ed io stessimo perennemente incollati alle guardie del corpo ed indossassimo un giubbotto antiproiettile. Nessun incidente di percorso. Solo qualche apprensione quando gli agenti, incrociati dei piccoli gruppi di malandros (delinquenti nel gergo locale), si apprestavano a setacciarli dalla testa ai piedi dopo averli schierati di schiena con le mani appoggiate alla parete rocciosa. Durante il giorno – riferiscono le cronache – tutto appare tranquillo e normale e le piccole case aggrappate alla montagna possono anche dare l’impressione di piccoli isolati presepi. Ogni tanto scoppiano brevi e sanguinosi conflitti armati tra bande rivali che si contendono il territorio e il narcotraffico e per qualche tempo nessuno osa farsi vivo sul luogo degli scontri. Ma quando scende la sera e le tenebre inghiottono i villaggi, ognuno se ne sta rinchiuso nella propria casa in pietra e legno, come ci fosse il coprifuoco. Alla gente di qui non piacciono neanche i poliziotti perché, malignano, «anche loro ti fermano per strada e ti chiedono soldi». Essendo un barrio popolare e povero, dove anni fa sbarcarono i primi medici cubani mandati da Castro, Petare è un bastione periferico schierato a favore di Hugo Chávez e il suo sindaco è chávista. Ma quest’ultimo è ora contestato dal candidato del centro destra, Carlos Ocariz, che rimprovera al governo di non essersi battuto a sufficienza sul problema della sicurezza che, a suo avviso, è il punto debole della politica di Chávez: «Qui l’anno scorso’ taglia secco – furono uccise 700 persone. E in un fine settimana ne possono morire anche una trentina». Anche i sequestri, in cui sono state coinvolte pure persone di origine italiana e compiuti con un’efferatezza e crudeltà estreme, la dicono lunga sulla spirale di violenza che ha investito il Venezuela e convertito le città dell’America Latina – scrive l’Observatorio Venezolano – «nello scenario di una guerra silenziosa e non dichiarata». L’esperienza di Tiberio Andreollo, un facoltoso allevatore di bestiame di Barinas, 58 anni, sbarcato in questa landa dal Veneto quanddo di anni ne aveva appena sette, ha risvolti meno drammatici di altri due casi di sequestro consumati a Maracaibo. Racconta tuttavia i suoi dolorosi 46 giorni in mano ai rapitori (10 uomini) che lo prelevarono di mattina nella sua fattoria e lo portarono via in macchina incappucciato. Il riscatto iniziale si aggirava sul milione di dollari ma poi scesero a più miti pretese. Lo fecero camminare per settimane sempre bendato, gli davano da mangiare solo riso in bianco e perse sedici chili di peso. «Ma la cosa più brutta – ricorda adesso – era la pressione psicologica, la paura di non reggere e che mi facessero fuori». I negoziati che hanno condotto alla sua liberazione sono stati fatti dalla sorella. Dice di aver conosciuto i tre rapitori che sono rimasti uccisi e gli altri tre che sono finiti dietro le sbarre, mentre i rimanenti quattro sarebbero ancora uccel di bosco. «Comunque – conclude – questa vicenda non ha turbato i miei rapporti con il Venezuela, Paese ch mi ha accolto molto bene e a cui sono affezionato e grato». Agghiaccianti, invece, i due sequestri che mi sono sentito raccontare a Maracaibo nella casa di Giovanna Vassallo, cui hanno rapito il padre, Mario, 68 anni e lui pure allevatore, prelevato nella sua fattoria la mattina del 6 febbraio 2006 e trovato morto un paio di settimane dopo, benché una borsa piena di banconote (la cifra iniziale del riscatto era di un milione di Bolivar, circa 500 mila dollari) fosse in qualche modo pervenuta ai sequestratori. Giovanna, una bella signora dal sorriso smagliante, rivive l’angoscia di quelle giornate raccontando particolari dolci e strazianti: come il voto di non mangiare più Nutella per un anno se papà fosse tornato; o come amici di famiglia e vicini di casa avessero fatto una colletta per raggranellare la somma necessaria al riscatto, trasformando il frigo in una cassaforte dove custodire e occultare migliaia e migliaia di Bolivar. Tutto inutile. Il signor Vassallo non sarebbe mai tornato. I suoi rapitori, trasformati ormai in carnefici, gli fecero scavare una fossa prima di eliminarlo con un proiettile alla nuca. I sospetti caddero su una famiglia di delinquenti, i Los Brito, malandros di sinistra reputazione nella zona. La loro madre, che dirigeva l’«azienda», fu torturata e uccisa dalla polizia. Due dei sequestratori fecero una brutta fine: uno sarebbe stato ucciso dalla polizia, l’altro dai membri della stessa pia confraternita che gli spararono mentre dormiva placidamente nell’amaca. Un terzo finì in carcere e poi in ospedale dove però venne dimesso e rilasciato a piede libero. «E il governo non fece un coño per punire i responsabili », è l’amara conclusione di Giovanna: ma coño è una parola troppo oscena e non può essere degnamente tradotta. Anche in casa Di Brino – altra famiglia d’origine italiana – c’è stata una vittima: una ragazza i 22 anni, Rosina, che stava per laurearsi, rapita il 2 febbraio del 2006 e mai più tornata a casa. Ce ne parla il fratello Angelo, che è qui con noi nella casa di Giovanna e che ha avuto la penosa incombenza di «negoziare » coi sequestratori. Questi hanno sparato all’inizio una cifra folle, poi sono scesi in picchiata accontentandosi di 80 mila dollari: ma anche questa era una somma troppo alta per gente modesta come i Di Brino. Conclusione: i rapinatori reagiscono strangolando Rosina con le proprie mani. Buttato in acqua, il suo cadavere riemerge di lì a poco sulla spiaggia del lago di Maracaibo. Angelo è chiamato dalla polizia per il riconoscimento della sorella. Sconvolto, lui è più che mai convinto, anche per il modo in cui si sono svolte le trattative, che i sequestratori sono stati assecondati dai poliziotti: anzi, che «sono i poliziotti i primi, veri sequestratori». Quando l’opposizione gli rimprovera di non aver preso a cuore il problema della sicurezza, lasciando troppo spazio all’immunità, il presidente Hugo Chávez insiste nel sottolineare prima di tutto la necessità di assicurare al Paese un solido equilibrio sociale e che la sua priorità rimane sempre la lotta a favore dei poveri: e a questo proposito non manca di ricordare che l’anno scorso il suo governo ha approvato una manovra economica da 54 miliardi di dollari che gli hanno permesso di promuovere e finanziare i programmi sociali più impellenti. Ma i suoi detrattori, cui non garba lo spirito della politica chávista che vede mischiati insieme populismo, nazionalismo, militarismo (il Venezuela è governato dalle Forze Armate, ha scritto qualcuno), socialismo, più il vecchio sogno bolivariano dell’unione dei Paesi sudamericani, sono pronti a sostenere che lo slogan strappaconsensi «Chávez va bene per i poveri» non trova prove concrete nella realtà quotidiana e che il suo slancio a favore delle classi più basse «non ha fatto niente di più dei governi che l’hanno preceduto». Ma fuori dai patri confini, questo è un anatema. Per la Cuba di Fidel e Raúl Castro, per la Bolivia di Evo Morales e anche per il Nicaragua di Daniel Ortega, Hugo Chávez è l’uomo che nel maggio del 2007 ha nazionalizzato gli impianti di estrazione del petrolio, sottraendoli alle compagnie straniere: e anche l’uomo che ha destinato miliardi di dollari, grazie al petrolio, ai Paesi in difficoltà dell’America Latina. Ma nessuno è in grado di giurare che possa sfidare incolume i picchi di Petare. Ettore Mo