Edward Luttwak, Corriere della Sera 24/8/2008, pagina 35, 24 agosto 2008
Che la politica estera di George W. Bush sia stata un fallimento totale è oggi opinione talmente diffusa al punto da apparire una palese verità che non necessita di ulteriori spiegazioni
Che la politica estera di George W. Bush sia stata un fallimento totale è oggi opinione talmente diffusa al punto da apparire una palese verità che non necessita di ulteriori spiegazioni. già successo in passato. Quando il presidente Harry S. Truman dichiarò, nel marzo del 1952, che non avrebbe cercato un secondo mandato presidenziale, su un punto concordava la maggioranza degli americani: la sua politica estera era stata un catastrofico insuccesso. In Corea, la sua indecisione aveva attizzato l’aggressività del Nord e la sua incompetenza era costata la vita a 54 mila soldati americani e a milioni di civili coreani in soli due anni di combattimenti, in entrambi i casi, più di dieci volte le perdite subite in Iraq. La destra condannava Truman per aver abbandonato la Cina al comunismo e licenziato il grande generale Douglas MacArthur, che avrebbe voluto riprendersela, anche facendo ricorso all’arsenale nucleare. I liberal – da sempre gli snob della politica americana – dal canto loro disprezzavano Truman in quanto commerciante fallito che aveva usurpato il posto del patrizio Franklin Roosevelt alla Casa Bianca. Ma come mai questo stesso Harry Truman ha finito per essere universalmente considerato un grande presidente, e in modo particolare per la sua politica estera? una questione di prospettiva temporale: la guerra di Corea è quasi del tutto dimenticata, mentre oggi si riconosce l’efficacia della strategia di contenimento messa in atto da Truman e conclusasi nel lungo raggio con la pressoché pacifica disgregazione dell’impero sovietico. Affinché anche Bush venga ricordato come un grande presidente dello stampo di un Truman, occorre che la guerra dell’Iraq svanisca dalla memoria collettiva. Il fulmineo rovesciamento del sanguinario Saddam Hussein è stato seguito da anni di costosa violenza, non dalla democrazia istantanea, com’era stato promesso. (..) Eppure la dispendiosa guerra irachena sarà considerata come evento di secondaria importanza nell’offensiva globale lanciata da Bush contro la militanza islamica, proprio come la guerra di Corea, di gran lunga più costosa, rappresentò una semplice tappa nell’arginamento globale della Guerra fredda. Perché la reazione di Bush all’11 settembre è stata in sostanza un attacco globale contro l’ideologia della militanza islamica. Mentre le operazioni antiterroristiche hanno avuto esito talvolta incerto e il destino dell’Afghanistan resta ancora in sospeso, la guerra ideologica – di gran lunga più importante’ si è conclusa con una spettacolare vittoria globale per il presidente Bush. Fino all’11 settembre, i militanti islamici, che comprendevano jihadisti fondamentalisti di ogni risma, da Al Qaeda a movimenti strettamente locali, godevano di ampio sostegno pubblico – apertamente o tacitamente – in gran parte del mondo musulmano. Una situazione, questa, che si è ribaltata bruscamente dopo l’11 settembre. Sebbene l’intellighenzia mondiale abbia gettato il ridicolo sul proclama di Bush, «O con noi, o con i terroristi», quasi fosse una bravata da cowboy, la sua posizione intransigente ha colpito nel segno. Non pochi governi nel mondo islamico hanno preferito cambiare rotta: alcuni sono intervenuti energicamente, sciogliendo i gruppi locali di jihadisti da tempo tollerati, mettendo a tacere i predicatori estremisti e allontanando i jihadisti stranieri che fino ad allora erano stati accolti con favore. Tuttavia, è stato in Pakistan che le pressioni di Bush hanno ottenuto il più clamoroso dietrofront politico. Nell’arco di 24 ore dall’11 settembre, in questo Paese si è verificato un fenomeno senza precedenti: il suo governo ha preso le distanze dal concetto fondante della politica del Paese – il sostegno alla jihad – che affonda le radici nel mito nazionale del Pakistan, Stato musulmano per eccellenza. Era come se il presidente Bush avesse spedito un inviato in Italia per chiedere la messa al bando degli spaghetti al pomodoro… e ci fosse riuscito! Spesso, proprio per aver sottovalutato l’abilità di George W. Bush in politica estera (la sua politica fiscale è un’altra cosa), l’opinione comune sbaglia inoltre una previsione di portata ben più ampia, che riguarda il futuro degli Stati Uniti. Si avverte una smania, in alcuni settori, di addossare all’incompetenza percepita nella politica estera americana la responsabilità del declino della potenza statunitense. Questo atteggiamento tradisce una confusione tra mutamenti assoluti e relativi. Le economie di Cina e India sono cresciute rapidamente dal giorno in cui i loro governi hanno rinunciato a politiche autolesioniste e il Brasile, assieme a molti Paesi più piccoli, da Israele a Singapore, segue il medesimo corso. Di conseguenza, se è diminuita la ricchezza relativa di Stati Uniti ed Europa, è aumentata notevolmente quella dei Paesi emergenti. A ben vedere, è fonte di nuova ricchezza avere a disposizione nuovi mercati in grado di importare tecnologie americane e tedesche e beni di lusso europei, ed è anche motivo di legittima soddisfazione sapere che centinaia di milioni di persone sono state sottratte alla malattia e alla miseria e godono oggi di standard di vita notevolmente migliorati, raggiungendo addirittura in alcuni casi condizioni di prosperità. Pertanto il declino statistico relativo nel reddito di Stati Uniti ed Europa non assume un valore sostanziale negativo, a meno che il benessere economico dei Paesi emergenti non si trasformi in una futura sfida militare diretta contro gli Stati Uniti, se non contro l’Europa. Ma alla base di questa teoria troviamo un presupposto assurdo: che Cina, India, Brasile e il resto delle economie in forte crescita formeranno un’alleanza globale per osteggiare Europa e Stati Uniti. molto più probabile, invece, che si verifichi l’opposto. (..) innegabile, però, che quando il sistema finanziario americano (ed europeo) scricchiola sotto l’accumulo di un debito privato colossale; quando azioni bancarie, fino ad oggi considerate sicure, appartenenti a milioni di fondi pensione, diventano carta straccia dalla sera alla mattina; quando la credibilità e il valore del dollaro subiscono gravi scossoni per il volume senza precedenti di nuove garanzie scaricate sul tesoro americano (dell’ordine di migliaia di miliardi), allora l’ipotesi del declino americano comincia ad assumere contorni assai più plausibili. (..) chiaro, inoltre, che l’immensa ricchezza degli Stati Uniti – Paese che vanta 19 mila aeroporti locali e un intero Mediterraneo di piscine private – viene erosa da resistenze politiche in apparenza insormontabili che impediscono l’attuazione di soluzioni pragmatiche ai problemi più gravi della popolazione, dal narcotraffico al trasporto pubblico, fino alla sanità. Sono questi i problemi reali che affliggono gli Stati Uniti, ma le cassandre del declino hanno ben poco da aggiungere a riguardo. Sarà interessante vedere se l’America saprà affrontare i suoi guai interni, o se gli americani preferiranno aspettare e sperare che si risolvano da soli col tempo. Se la prima ipotesi è più auspicabile, la seconda appare molto più probabile. Si capisce come i benpensanti abbiano scambiato le priorità delle due grandi questioni riguardanti il ruolo degli Stati Uniti nel mondo: sono convinti che Bush abbia fallito proprio nel campo in cui ha raccolto i maggiori successi, e che la Cina vada ad aggravare i problemi americani quando invece è vero l’opposto. Persino per le Olimpiadi i cinesi hanno affidato ai massimi architetti occidentali la progettazione degli edifici più rappresentativi. la modernità occidentale ad emergere in modo spettacolare in Cina e altrove nel mondo che lavora, non una versione di sapore locale. Ma gli Stati Uniti resteranno la fonte principale dell’innovazione occidentale, anche perché vantano una popolazione più giovane e una società più flessibile rispetto all’Europa. Allora prepariamoci a un nuovo miracolo economico, quando le difficoltà odierne finiranno nel dimenticatoio, assieme alle nefaste previsioni di Davos. Edward Luttwak