Massimo Numa, La Stampa 25 agosto 2008, 25 agosto 2008
Francesco Pagani Cesa, 49 anni, milanese, oggi è direttore del giornale dei detenuti di Novara, «La Gazza Ladra»
Francesco Pagani Cesa, 49 anni, milanese, oggi è direttore del giornale dei detenuti di Novara, «La Gazza Ladra». Fu un capo-colonna, tra l’80 e l’82, delle Brigate Rosse. il periodo in cui l’organizzazione si frammenta in anime diverse, spesso in contrasto: il più feroce e sanguinario. Pagani Cesa fu arrestato e condannato all’ergastolo. Ed è il suo impegno nei media il punto di partenza di un’intervista, la prima dopo 25 anni di silenzio. Ventidue anni di carcere, poi la semilibertà. Niente foto. l’unica richiesta di Pagani Cesa. Il suo giornale si batte contro la pena di morte. Però lei, nel suo passato, non ebbe pietà... «Nel contesto degli articoli pubblicati, in uno in particolare, è scritto in modo chiaro che se io fossi stato in un altro Paese non potrei oggi, a causa del mio passato, essere qui a battermi contro la pena capitale. Sarei stato condannato a morte. Non ho mai nascosto quanto è avvenuto». Lei, in tutti questi anni, a differenza di altri ex Br o Prima Linea, non è mai intervenuto nel dibattito sul post-terrorismo. Perchè? « stata una scelta precisa. Sono contrario al "reducismo professionale", sul modello di Sergio Segio, Adriana Faranda e Susanna Ronconi. Intanto per rispetto del dolore dei familiari delle nostre vittime, e credo sia l’aspetto più importante: ferite ancora aperte, e che non si chiuderanno mai. Poi per ovvie ragioni di credibilità. Io rispetto tutti, per carità, non voglio giudicare nessuno. Ma il silenzio, per me, è stato un dovere». Cioè? «Nel percorso di alcuni ex brigatisti c’è questa insana voglia di una massima esposizione. Io ho avuto moltissimi inviti a partecipare a trasmissioni tv, a rilasciare interviste e quant’altro. Insomma, riapparire e quindi riesistere. Ma il reducismo è in realtà un vissuto che attira, che fa richiamo, è dunque spettacolarizzato, da consumare. Come un reality». Sul suo giornale non ha mai pensato di recensire libri o film sulle Br? L’ultimo film, il "Sol dell’Avvenire", tratto dal libro di Alberto Franceschini, ha sollevato polemiche... «Non li recensirei, né, confesso, li andrei a vedere. Troppo presto per la storia, troppo tardi per la cronaca. C’è ancora bisogno di tempo, di rileggere a mente fredda gli Anni di piombo. Non possono che essere realizzati in modo approssimativo, con una cifra artistica di basso livello». rimasto in contatto con gli ex compagni? «Non m’interessa coltivare questo tipo di rapporti, non credo alle rimpatriate». Passa mai in via Domodossola? «No, assolutamente, me ne guardo bene. Sono ferite, ripeto, ferite profonde, che non si chiuderanno mai. Accetto di essere chiamato assassino, che è la verità, non solo giudiziaria. Ma contesto il "taglio" che viene dato dai media su quei fatti. Non furono il frutto dell’azione di pazzi, di schegge impazzite. Allora, le Brigate Rosse erano il prodotto delle contraddizioni sociali e politiche nate dopo il boom. Avevano una forte e radicata rappresentatività nel movimento operaio. Io stesso, giovanissimo, ero operaio, lavoravo in fabbrica, all’Innocenti di Milano. Questo non può non essere riconosciuto. Resta l’amarezza di avere sbagliato tutto. Ma non eravamo soli. Leggo sui giornali le firme, vedo le loro facce in tv, non mi piace. Parlo della gente che negli anni delle Br discuteva se entrare in clandestinità o no. Avevamo torto marcio, ok. Ma non eravamo solo noi i pazzi, gli scoppiati, a scrivere comunicati "deliranti". Forse non è ancora chiaro». Non ha mai pensato di parlare, di chiedere perdono, ai familiari delle vittime? «Sarebbe solo di cattivo gusto. Nei documenti dei processi questo aspetto, chiedere il perdono, è stato affrontato. Se si potesse risarcire il male coi soldi, con una lettera, con le parole, lo avrei sicuramente fatto. Ma non servirebbe a nulla. Ho troppo rispetto per il dolore delle famiglie, lo condivido. E penso con rabbia e pena alle mille vite spezzate, anche dalla nostra parte, alle mille vite inutilmente rovinate. Adesso, meglio il silenzio. L’unico viatico, forse, è quello di fare in modo che altri, i giovani, non cadano di nuovo in errore». Come giudica le nuove Brigate Rosse? «L’improvviso comparire di terze linee attempate, di ragazzini senza storia, mi ha fatto riflettere. Il terrorismo è morto nei primi Anni ”80. Il resto è, davvero, solo un’inutile follia. A quei tempi le azioni terroristiche si misuravano sull’arco delle ore; oggi, con gli anni. E non solo in Italia, ma in tutta Europa. Le Br non esistono più. Certo, qualche pazzo può prendere una pistola e compiere gesti criminali isolati. Nella personalità degli anziani neo brigatisti c’è forse il rammarico di essere rimasti in seconda linea nei tempi in cui la guerriglia c’era davvero. Il riemergere di questi fantasmi è semplicemente un’assurdità. Non rappresentano nulla, se non le loro frustrazioni». E i terroristi-ragazzini? «I sessantenni, i cinquantenni di oggi, quando avevano vent’anni vivevano in un’atmosfera politica stimolante, forse unica, ricca di movimenti, di curiosità culturali, con una società al centro di profondi cambiamenti socio-economici. Oggi, niente di niente. Sono generazioni vuote, senza valori di riferimento. Chi sogna di imbracciare un’arma non sa neppure di che cosa si sta parlando. Avventurismo, gente isolata. Auto-referenziale». Quali sono le sue idee di oggi? In quale partito, in quale schieramento, si identifica? «Esaurite per sempre le due grandi scuole politiche, mi sento un liberista. Ho un punto di riferimento nel Partito Democratico. A volte lo critico da destra, a volte da sinistra. Certamente non ho nostalgie di alcun tipo per il marxismo ortodosso». Leggendo il suo giornale, ci si imbatte spesso nel lessico politico Anni ”70... «C’è il luogo comune che i giornali dei detenuti debbano comunque essere un po’ patetici, un po’ sentimentali, un po’ retorici. Non potremo mai rinnegare la cultura dove ci siamo formati, giovanissimi, il modo di esprimerci. Effettivamente, la "Gazza" non è per tutti». Qualcuno, a Novara, le fa pesare il suo passato? «La scelta di un profilo più basso possibile mi consente di lavorare in modo sereno. Mi spiacerebbe, dopo il tempo passato, vedere tornare ombre negli occhi delle persone. Ma è un rischio che devo accettare». Il poster cubano alla parete C’era un manifesto che richiamava la rivoluzione cubana, uno dei miti dei ragazzi degli Anni 70-80, con uno slogan «Hasta la vista siempre» nella cameretta di Antonio Pedio, 27 anni, una delle due guardie assassinate dalle Br. Era uno dei tanti giovani di sinistra. Così lo ha ricordato, poco tempo fa, il fratello Walter.