Vittorio Sabadin,La Stampa 25 agosto 2008, 25 agosto 2008
Forse avevano ragione i cinesi nel dire che molti giornalisti occidentali sono andati a Pechino con qualche pregiudizio
Forse avevano ragione i cinesi nel dire che molti giornalisti occidentali sono andati a Pechino con qualche pregiudizio. Gli atleti avrebbero dovuto restare soffocati dall’inquinamento, migliaia di contestatori avrebbero dovuto essere arrestati e malmenati per le strade e nessun inviato avrebbe potuto fare liberamente il proprio lavoro. Tutto questo, nella sostanza, non è avvenuto, le Olimpiadi sono state un successo globale privo di importanti incidenti, ed è certamente con un grande respiro di sollievo che la bandiera dai cinque cerchi è stata consegnata ieri nelle mani del sindaco di Londra, Boris Johnson, al quale toccheranno ora i problemi. Non è infatti certo che la Gran Bretagna riuscirà a superare nel 2012 la grandiosità dei Giochi cinesi. E la loro organizzazione, a causa della recessione in arrivo e della fuga degli sponsor, rischia di trasformarsi in un terribile incubo. Le autorità cinesi ripetono spesso che vorrebbero esser giudicate dagli sforzi fatti, piuttosto che dai risultati raggiunti. Muovere in qualunque direzione un Paese di 1,3 miliardi di abitanti richiede tempo, e in fondo l’importante è che la direzione resti quella giusta. Le Olimpiadi potevano essere un’occasione per progredire nell’apertura verso il mondo esterno e nelle riforme democratiche interne, com’è avvenuto nella Corea del Sud dopo i Giochi di Seul del 1988. Oppure potevano essere il contrario, con il rischio di mostrare al mondo il proprio volto peggiore, repressivo e incurante dei diritti umani. Molti puntavano sulla seconda opzione e non è certo un caso che le rivolte in Tibet e nelle altre province che reclamano l’indipendenza siano scoppiate in occasione dei Giochi, alla ricerca di un palcoscenico mondiale altrimenti negato. Pechino rischiava perciò di ritrovarsi a gestire durante le Olimpiadi decine di sollevazioni analoghe, trasmesse in mondovisione. Il duro intervento nel Tibet è stato certamente una macchia, ma probabilmente dal punto di vista di Pechino in quel momento non c’erano alternative. E poi perché i cinesi dovrebbero preoccuparsi, quando quasi tutti i leader occidentali fanno discorsi a sostegno dei tibetani e poi rifiutano di ricevere il Dalai Lama, minacciano di boicottare le Olimpiadi e poi ci vanno, perfettamente consapevoli di dover fare i conti con il risentimento di quella che presto diventerà la prima economia del mondo? Anche in fatto di diritti umani, sembrano pensare i cinesi, nessuno ha più l’autorità morale per darci lezioni. Non certo l’America di Guantanamo e di Abu Ghraib, con George Bush costretto a fare la coda dietro il Presidente albanese per essere ricevuto da Hu Jintao, né la Russia di Putin che proprio nei giorni delle Olimpiadi muoveva i suoi carri armati in Georgia, incurante di colpire i civili nei bombardamenti, e non escludeva l’uso di armi nucleari se qualcuno avesse contrastato i suoi interessi. Anzi, paragonando i Giochi con quanto accadeva in Ossezia, l’Occidente ha certamente sentito più nemica Mosca che Pechino e anche questo ha contribuito al successo d’immagine delle Olimpiadi. La Cina non ha bisogno delle armi per conquistare il mondo: lo sta già silenziosamente facendo con le sue banche. Il risultato delle Olimpiadi cinesi sarà difficilmente replicabile, non solo dal punto di vista politico. Nessuno sa quanto sia davvero costato costruire impianti e strade, chiudere fabbriche inquinanti e costruirle nuove lontano dalla città, radere al suolo interi quartieri deportando gli abitanti, dimezzare il traffico e rallentare la produzione e l’economia per quasi un mese. Tutte cose che non saranno possibili nei prossimi quattro anni a Londra, dove il budget dei Giochi del 2012 viene aggiornato in continuazione. Solo quello per la sicurezza è passato da 838 milioni di sterline a 1,4 miliardi, quello per gli interventi nei trasporti ha raggiunto gli 897 milioni e quello per gli impianti e il villaggio olimpico 1,8 miliardi. Ma in realtà, con una recessione alle porte, un’inflazione che punta al 5% e con il costo delle materie prime da costruzione in crescita esponenziale, nessuno può fare previsioni sul conto finale, che potrebbe anche raddoppiare. E mentre i costi salgono, gli sponsor - che hanno sostenuto Pechino con due miliardi di dollari - sono in fuga, vittime della crisi economica, ma anche di valutazioni non proprio positive sul rapporto tra soldi impegnati e benefici ricevuti. «Quali nomi ricordate delle Olimpiadi?», si domandava ieri l’Independent. Rebecca Adlington? Chris Hoy? Manulife? Atos Origin? I primi due hanno vinto l’oro, gli ultimi due lo hanno speso: 50 milioni di sterline ciascuno per niente. Importanti marchi come Johnson&Johnson e Kodak si sono già ritirati, e altri seguiranno. Dei 650 milioni di sterline che si sperava di ottenere in sponsorizzazioni ne sono stati raccolti appena la metà e il rischio che i Giochi si trasformino in un bagno di sangue per le casse della città è molto elevato. Forse le Olimpiadi cinesi saranno ricordate a lungo come quelle che hanno chiuso un’epoca, ormai possibili solo in un Paese molto ricco e non ancora del tutto democratico, che ha bisogno di investire sulla propria immagine. A Londra le organizzarono l’ultima volta nel 1948, in un Paese in rovina devastato dalla guerra. Non c’erano sponsor né tv, e furono belle lo stesso. Stampa Articolo