Irene Maria Scalise la Repubblica 24/8/2008, 24 agosto 2008
IRENE MARIA SCALISE
Roma
voleva diventare un campione di tennis ma la partita ha finito per giocarla sul set. Una partita meticolosa in cui nulla è lasciato al caso. Gli stessi schemi di gioco, lo stesso studio delle insidie del match e la stessa attenta analisi delle movenze dei personaggi in campo. Gli altri dicono di lui che è uno stratega della macchina da presa. E forse, nonostante non sia ancora uno «splendido quarantenne», anche dell´esistenza. Dopo il clamoroso successo di Gomorra, a quelli che si ostinano a chiedergli cosa farà domani, Matteo Garrone risponde senza esitazioni: «In questo momento so esattamente quello che non devo fare».
Serenamente statico, si aggira per la sua casa romana. Sotto le sue finestre si muove una città dai colori accesi, un´altra Roma. Non ci sono turisti dalle parti di piazza Vittorio. Solo tanti cinesi, romeni, e bambini con il gelato sciolto tra le mani. Il palazzo è grande e un po´ decadente, nelle scale s´incontrano signore curve che trascinano la borsa della spesa. E anche le mura screpolate sembrano piegarsi sotto l´armatura di tubi e travi che lo fasciano. La casa è strana, scura e insieme brillante, con i soffitti talmente alti che una parte è arrampicata su soppalchi. Il sole d´agosto filtra dalle finestre ma Garrone sembra non accorgersene, si muove sornione cercando di fare ordine in quello che gli è capitato negli ultimi mesi: il trionfo cinematografico e un bambino arrivato da pochissimo. La compagna Nunzia, dolce e bionda, è una figura sorridente che entra ed esce con discrezione dalla stanza. Garrone, l´aria stropicciata da ragazzo sano, è in perenne attività: sistema libri e prepara scatoloni. Sta per traslocare lo studio, che al momento è stipato in una stanza, in un grande ufficio autonomo. Ci sarà bisogno di una camera in più per il piccolo Nicola: «Lo abbiamo chiamato così perché è il nome di mio padre», spiega timidamente.
Poi finalmente, davanti a un bicchiere di tè freddo, si rilassa. «L´attitudine a organizzare mi è rimasta da quando giocavo a tennis. Da ragazzo avevo un quaderno in cui segnavo meticolosamente le caratteristiche dei miei avversari, le note temperamentali e persino i loro rapporti con i genitori, per capire come potevano affrontare la partita. Prevedevo eventuali reazioni inaspettate. Tutti i pomeriggi, dopo la scuola, andavo agli allenamenti in bicicletta e nel tragitto rivedevo gli errori del giorno prima».
Per Gomorra ha usato un tabellone, alto due metri e largo uno, perché lui è decisamente poco attratto dalle tecnologie. Niente palmari e tanta carta, questa è la regola. «Il set per me è la partita, prima di girare avevo ideato uno schema che corrispondeva a quello del tennis e, in tante tasche di plastica inserite sul tabellone, avevo messo dei cartoncini colorati per visualizzare l´andamento del film e le fotografie delle scene già girate». Schemi prestabiliti ma anche, anzi soprattutto, armonia con gli altri: «Il cinema, come lo sport, è un´arte collettiva dove ciascuno ha un ruolo fondamentale e dove l´accordo del gruppo è il vero collante. Per me è importante lavorare in modo artigianale con montatori e sceneggiatori mentre io, come un allenatore sportivo, coordino il gruppo».
Esattamente il contrario di chi s´immagina il cinema come il caos, l´entropia allo stato puro. Casomai, un paragone adeguato è quello con la pittura. Perché nel passato di Garrone, oltre allo sport, c´è anche la tela. A ricordarlo, in salotto, un quadro gigante: quattro figure cupe. Due uomini e una donna con un bimbo, apparentemente immobili ma che, sotto gli abiti, tradiscono un guizzo muscolare. Quasi una foto di scena, il fermo immagine di un lungometraggio. Eppure il regista lo ha dipinto tanto tempo fa: «Quando ho fallito con il tennis, sono stato malissimo e, poiché avevo disegnato sin da piccolo, mi sono dedicato con tutta l´anima alla pittura. stato un momento di lavoro sulla luce e di evoluzione nel rapporto con l´immagine». Per lui, anche nel cinema, è tutta questione di velature. Come nella pittura a olio: «Per arrivare a una tonalità si usano tanti strati di colori sovrapposti e sono proprio le velature a dare vita all´effetto finale». E lui inventa, cambia, rovescia gli schemi. un fantasista del set: «Alcuni registi preferiscono uno story board per avere tutto chiaro prima di girare, altri sono insofferenti rispetto allo scritto e fanno entrare nel film quel che succede anche dietro la macchina da presa. Io sono tra questi e torno anche al montaggio per rivedere i passaggi e lavorarci nuovamente sopra».
Nel suo modo di girare c´è una forte simbiosi con gli attori. Di più, cerca di creare una sorta di matrimonio tra attori e personaggi: « fondamentale che i protagonisti seguano, giorno per giorno e ripresa dopo ripresa, un tragitto drammaturgico perché è come se facessimo un viaggio assieme». Certo, tanta meticolosità richiede tempi lunghi: «Ho inventato una forma di accordo con il mio produttore: mettiamo da parte una quota del budget complessivo in modo che, se al termine delle riprese non sono soddisfatto, si può tornare a girare per altre tre settimane senza ulteriori investimenti. Se invece tutto funziona, allora risparmia il trenta per cento». Naturalmente, chiarisce ridendo, non è mai successo.
Nei mesi di lavorazione Matteo si mette continuamente in discussione. Un´altalena di emozioni devastante: «Sono spesso salvato dai miei collaboratori, perché in certi momenti distruggerei ogni cosa e manderei tutto all´aria, mentre in altri sono convinto che sia il mio miglior film». Altra scelta fondamentale è quella di girare direttamente come operatore. Di non mollare mai la macchina da presa. «Quando lavoro inseguo dei momenti unici, posso fare venti ciac diversi senza che accada qualcosa. Tutto mi sembra sbagliato e poi succede il miracolo e i movimenti degli attori e quelli della macchina si armonizzano in modo istintivo, come in una danza. Posso anche scegliere di girare una scena in base a un attimo, all´inquadratura di una mano, a un gesto casuale».
Questo metodo, faticoso ma irrinunciabile, lo ha usato sin da Silhouette, il primo cortometraggio con cui ha vinto il Sacher d´Oro. Quindi, con i soldi del premio, ha girato Terra di mezzo. Mostra fiero una foto della troupe di allora: lui sembra ancora quel ragazzino che correva in bicicletta verso i campi da tennis e anche gli altri sono giovanissimi. «Eravamo un piccolo gruppo sgangherato ma solo grazie a quelle esperienze mi sono formato, perché sono un autodidatta». Il film Estate Romana, invece, Garrone lo ha girato in questa casa. Alcuni elementi della scenografia, come un enorme mappamondo appeso al soffitto dell´ingresso, sono ancora qui: «Era una storia legata al mondo delle avanguardie teatrali, era l´anno del Giubileo e ho lavorato in una Roma impacchettata in cui i luoghi sono stati fondamentali per trasmettere un senso di precario che rimandava alla solitudine dei personaggi». Il rapporto con il territorio e la ricerca figurativa dell´ambiente rimangono un punto fondamentale del suo stile: «Un film come Gomorra poteva essere girato solo a Napoli, ho una grande capacità camaleontica, entro nella vita del quartiere e interrogo i luoghi che diventano funzionali per il racconto».
Il successo di pubblico, per Garrone, è arrivato con L´imbalsamatore. Era un noir girato, ancora una volta, con attenzione alle atmosfere. Il talento del pittore prestato al set: «Un film che nasceva da alcune suggestioni visive». Una pellicola audace, in cui sembrava non avere paura di attraversare l´incognito. Di rischiare di farsi male. E gli spettatori hanno premiato il coraggio. Nel 2003 è arrivato Primo amore. Il racconto di una donna che, per essere accettata dal suo uomo, diventava sempre più magra. E, soprattutto, una parabola sull´incapacità di accettare l´altro nel rapporto a due e la sopraffazione che devasta la coppia. «Solo in apparenza un film d´amore, in realtà un racconto sulla dipendenza sentimentale in una coppia dove, usando lo stratagemma del corpo che cambia, ho descritto come si può trasformare l´altro secondo i propri desideri».
Dopo una lunga pausa ha iniziato la preparazione per Gomorra. Ed è stata meticolosa all´inverosimile. «Siamo stati sei mesi nel Napoletano per la fase di preparazione, gli incontri, i sopralluoghi. Un´esperienza forte, che mi ha segnato per la vita. La cosa che mi ha colpito di più, come diceva Rossellini in Germania anno zero, è che tutti vivono nell´incoscienza della loro condizione». Lo sforzo più grande è stato quello di uscire dagli schemi, di non cadere nella trappola del buono e del cattivo. «Ho tentato di raccontare l´umanità dei personaggi e i loro conflitti interiori, di descrivere quella zona grigia in cui tutto si confonde e il bene sconfina nel male e il lecito nell´illecito».
La ricerca sull´immagine, ancora una volta, è stata al centro del lavoro. La prima scena del film è un colore: quello azzurro-neon dei centri abbronzanti. «L´idea della strage del solarium mi è venuta sul luogo. Un´invenzione nata dalle abitudini dei malavitosi e dal loro rapporto con il corpo, l´evoluzione delle sparatorie tra i vecchi gangster nel salone del barbiere». Secondo Garrone c´è una contraddizione quasi maniacale tra la brutalità con cui i camorristi uccidono e la loro attenzione all´estetica. Per avere un esempio di come sono cambiati, antropologicamente, i volti dei criminali, propone di guardare le figurine dei calciatori dagli anni Settanta ad oggi: «Nella camorra vince un modello d´ispirazione fashion, risultato dei nuovi idoli della televisione, che entra nelle case di ricchi e di poveri ma che è lontanissima dalla realtà di quei luoghi. A Scampia i ragazzi vivono davanti al Grande fratello, il loro mito sono gli abiti firmati, i parrucchieri di grido».
Nelle riprese di Gomorra, Garrone però non è stato solo. Mai. Il libro di Saviano è stato il sostegno naturale per riuscire a riscrivere l´immaginario legato alla camorra. E poi la gente del posto: «Il pubblico che si accalcava durante le riprese era un test per capire se una scena accendeva le emozioni. Quello di Scampia è un mondo chiuso e il nostro arrivo è stato come un circo che, per quasi due mesi, ha cambiato il quotidiano».