Barbara Spinelli, La Stampa 24/8/2008, 24 agosto 2008
Come abbiamo perso la Russia? La domanda non è nuova - sono vent’anni che gli studiosi la ripropongono - ma non ha ancora messo radici nelle menti dei responsabili occidentali
Come abbiamo perso la Russia? La domanda non è nuova - sono vent’anni che gli studiosi la ripropongono - ma non ha ancora messo radici nelle menti dei responsabili occidentali. Le domande che mettono radici sono innanzitutto quelle che rivolgiamo a noi stessi, e non si limitano a denunciare il brutto mondo che ci s’accampa davanti sorprendendoci come qualcosa d’inaspettato. Quel che non abbiamo voluto, non necessariamente è inaspettato. Quel che ci sorprende, non sempre è sorprendente e forse neanche del tutto indesiderato. Interrogarsi è fecondo se si esaminano i propri atti mancati, la propria impreparazione. Se si usa una memoria lunga, non la memoria breve che è comoda nell’immediato e conforta opinioni confezionate che adoriamo. quello che l’Occidente non sa fare, e per questo gli è così difficile fronteggiare il dramma d’uno Stato - la Russia - che ha scelto di tornare potenza bellicosa infiammando la guerra in Georgia. Si è parlato molto dell’aggressività sovietica risorta, di una Russia che per malefico istinto ripete, quarant’anni dopo, l’estrema violenza che fu l’invasione sovietica a Praga. Ma l’interrogarsi vero non s’accontenta di queste spiegazioni, va più a fondo, non si rallegra di essersi fabbricato un nuovo mostro utile alle campagne elettorali. Se in Europa si riaccende la questione russa è perché la guerra fredda è stata conclusa malamente, nell’89-’90: senza la saggezza che edifica invece di sfasciare. Quel che chiamammo pace, allora, non fu percepita come pace in Russia ma come duplice minaccia: psicologicamente un umiliante declassamento, politicamente uno squilibrio e accerchiamento. vero, il passato riaffiora a Mosca sotto forma di tentazione: ma un passato vasto, sia sovietico sia russo. vasto anche per l’Ovest, dove a riaffiorare sono le guerre europee del ”900 e i modi più o meno intelligenti con cui se ne uscì. Anche qui la memoria serve, se non la si usa per confortare idee già fatte. E la memoria rimanda alla prima guerra mondiale più che all’ascesa di Hitler, agli errori del 1919 più che ai cedimenti delle democrazie nel ”38. C’è un libro che aiuta a comprendere il presente meglio di tante analisi sull’orso resuscitato: fu scritto nel ”19 da John Maynard Keynes e s’intitola Le conseguenze economiche della pace. una denuncia, severa, dell’insipienza dei vincitori nel trattare la Germania vinta. Un vinto che doveva, soprattutto secondo il francese Clemenceau, essere umiliato, stremato. Il trattato di Versailles «non fu una pace magnanima o semplicemente giusta», ma la moderna «riedizione della pace cartaginese»: più precisamente quella che seguì la seconda guerra punica, e che impose a Cartagine di versare ingenti indennità, e di rinunciare a tutti i territori d’oltremare (Spagna in particolare), a parte del territorio africano, alla flotta di guerra inclusi gli elefanti. Alla fine la città fu distrutta, maledetta. Cartagine delenda est - Russia delenda est. Gli occidentali non userebbero tali parole, ma per la Russia è come se le avessero dette. Dice ancora Keynes che le guerre hanno conseguenze inevitabili: veramente malefiche sono le «sciagure evitabili della pace». La lezione fu appresa dai vincitori della seconda guerra, che ebbero un atteggiamento radicalmente diverso verso il vinto. La Germania non fu umiliata ma trasformata in partecipe e avente interesse (stakeholder) della pace. L’unità europea fu questo: la riduzione di tutti gli Stati-nazione e non di uno soltanto, e la messa in comune delle due risorse belliche che erano il carbone e l’acciaio (Ceca). Lo stesso potrebbe avvenire oggi sull’energia tra Europa e Russia, come proposto da Sergio Romano («I russi hanno petrolio e gas; noi abbiamo i capitali, le tecnologie e la cultura economica di cui la Russia ha bisogno», Corriere della Sera 20-8). Fino a oggi tuttavia è la strada del ”19 che è stata imboccata, con incompetenza e straordinaria leggerezza. Un’incompetenza di due amministrazioni (Clinton, Bush), tanto più impressionante se si pensa che l’America non manca di conoscitori della Russia. Ma l’Europa non era da meno: ottusa, immemore della propria fondazione, è stata al tempo stesso incapace d’inventare una pace con la Russia, di capirne le paure, e di tutelare i nuovi venuti dell’Est. Inizialmente gli sviluppi furono promettenti: a Gorbaciov fu garantito, durante la riunificazione tedesca, che la nuova sicurezza europea sarebbe stata davvero comune, e che la Nato non si sarebbe estesa. Ma la concordia fu breve: la distruzione della Cecenia fu ingoiata ma in cambio ogni idea di ordine comune svanì e alle inquietudini russe si reagì con disinteresse sbadato. La Russia soffriva di confini labili e di un’immensa diaspora (16-17 milioni negli Stati indipendenti dell’ex Urss) ma questa realtà fu ignorata quando Clinton decise il primo allargamento Nato, nel ”94-’95. L’allargamento rispondeva a paure est-europee che Bruxelles non sapeva attutire, ma Clinton creò il fatto compiuto. Decise senza discutere con Mosca, trattandola come vinta. Non ebbe fiducia in essa, e al contempo ne sottovalutò enormemente i pericoli: ragionò su tempi corti, guidato da lobby e calcoli elettorali. Credette in un’immutabile egemonia mondiale Usa. Non immaginò che Mosca avrebbe recuperato potere economico, politico. Quando Bush prospettò l’allargamento a Ucraina e Georgia, il risentimento russo raggiunse l’acme. Mosca non ha disseppellito da sola la guerra fredda. Secondo il Cremlino è stata Washington, quando ha ridelineato un muro in Europa spostandolo addirittura a Est. Altre provocazioni seguirono. Nel 2001 Bush si ritira dal trattato Abm - che per 29 anni aveva vietato gli antimissili balistici per frenare le atomiche offensive - e promette antimissili a Varsavia e Praga. Nel 2003 interviene unilateralmente in Iraq e moltiplica basi militari in Asia centrale, sfasciando la solidarietà creatasi con Mosca dopo l’11 settembre. Nel 2008 approva la secessione etnica kosovara. Da anni arma il nazionalismo irredentista in Georgia, fino a usarlo, come fa McCain, per vincere Obama alle elezioni. La pace dopo il ”90 non è forse contro la Russia, ma di certo non è stata fatta con la Russia. Non sono mancate in America le voci critiche. Il più esplicito fu George Kennan, teorico del contenimento durante la guerra fredda, che ammonì Clinton contro la Nato allargata: «Sarebbe il più fatale errore Usa nel dopo-guerra fredda. La decisione infiammerà le tendenze nazionalistiche e antioccidentali nell’opinione russa, avrà effetti dannosi sullo sviluppo della democrazia russa, restaurerà un’atmosfera di guerra fredda nelle relazioni Est-Ovest, spingerà la politica estera russa in direzioni decisamente contrarie ai nostri interessi» (New York Times, 5-2-97). Con Kennan si schierarono studiosi niente affatto filosovietici, in passato: il negoziatore per il disarmo Paul Nitze, il giornalista Thomas Friedman, lo studioso Michael Mandelbaum, lo storico dello stalinismo Robert Conquest. Non furono ascoltati perché la politica Usa sente oggi più le lobby etniche che i veri esperti: il loro parere fu occultato quasi fosse il minority report di Steven Spielberg. Poco prima della guerra georgiana, Kissinger ha riesumato il minority report, disapprovando l’allargamento Nato all’Ucraina (Herald Tribune, 1-7-08). Per questi motivi oggi è il momento dell’Unione Europea: sapiente come lo fu agli esordi, essa sa quel che è evitabile nelle sciagure della pace. Gli spaventati europei orientali non potranno essere ignorati, urge una comune difesa che li tuteli, ma una cosa andrà chiarita con essi. Le politiche fin qui seguite hanno creato caos, non pace. Proprio per avere più sicurezza, l’Europa deve oggi inventare la pace con la Russia anziché contro di essa, e accrescere l’autonomia dagli Usa anziché diminuirla. Stampa Articolo