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 2008  agosto 23 Sabato calendario

DEVALLE

DEVALLE Beppe Torino 8 aprile 1940. Pittore. «’Vuole proprio sapere chi era l’amico che a New York mi ha salvato dal bruciare le tele, che mi ha impedito di buttare colori e pennelli? Mi aspettava al Metropolitan, silenzioso, come sempre. Poi mi raccontava cose straordinarie: mi diceva come respirare, mi dava il ritmo, mi faceva scoprire il corpo. Dopo un paio d’ore me ne andavo sereno: avevo imparato qualcosa. Quell’amico di tanti pomeriggi inquieti si chiamava Edouard Manet. [...] milanese d’adozione (per anni ha insegnato a Brera, e i suoi studenti si sentono ancora una casta privilegiata per il rigore dei suoi insegnamenti) [...] Come scrive Carlo Bertelli [...] è la ”fede nella pittura” che anima il lavoro di Devalle: ”Demolisce le sovrastrutture ideologiche per rivolgersi direttamente al fare della pittura. Le sue riflessioni sul colore, il colore degli antichi, il colore d’oggi, acquistano tanto più valore se non sono applicate a una creazione astratta ma impegnate a dare realtà a immagini vere, strappate alla cronaca”. Se c’è una cosa che colpisce, infatti, è la sfida dell’artista di costruire, un racconto agro, talvolta tragico, attraverso le icone malinconiche dei nostri giorni. I suoi dipinti raccontano del fascino della bellezza e del mistero della morte: toccano gli enigmi di vite affascinanti, talvolta estreme, messe insieme quasi in un collage apparentemente arbitrario. Ed ecco Diana con Dodi, Versace con Uma Thurman, Richard Avedon con Twiggy, Marella Agnelli con il figlio Edoardo, e poi Sylvia Plath, Francesca Woodman, Virginia Woolf, per citare soltanto pochi quadri. In questi monumentali dittici o trittici (di quasi 4 o 7 metri per 4) le figure rovesciano il rapporto spettatore-quadro. Vi ritroviamo le immagini che abbiamo già consumato nella lettura dei giornali ma qui completamente decontestualizzate, smontate e rimontate in composizioni spigolose e con colori acidi, in una sorta di enorme puzzle mentale: Beppe Devalle, come uno psicanalista, ricostruisce le figure del ricordo per ritrovare una chiave di comprensione della realtà e con essa della nostra identità. Opere dure, ricche di simbologie e omaggi (alla grande storia dell’arte) che richiedono un’attenta lettura dei dettagli e che sicuramente raccontano il presente-passato nella sua verità sottintesa, celata, nascosta dalla superficialità dello sguardo: ”I miei soggetti nascono dai drammi che hanno percorso i nostri anni. Questi soggetti mi assediano, mi sento come Dante nei gironi. Io parlo del male. I giornali non raccontano il bene. Sono come un cronista che usa il linguaggio della tela e del colore”. Beppe Devalle parla in modo sincopato, senza pause, con una straordinaria energia, quasi a voler raccontare in poche ore il senso di una vita vissuta nel nome della pittura: dipinta e insegnata. E col bisogno, irrefrenabile, di ribaltare in ogni momento i ruoli: insegnante-allievo, allievo- insegnante. ”Il confronto con la storia è un dato costante della sua ricerca”, sottolinea ancora Bertelli [...] Devalle lavora selezionando volti ritagliati da giornali. come se la sua lunga collaborazione con le pagine culturali del Corriere della Sera sia stata il filtro che lo ha costretto a confrontarsi con i media, i segni e i ritmi del quotidiano (la velocità del fare), ma soprattutto con la meditazione del critico (lo studio minuzioso su come e cosa fare). Da qui deriva un rigore estremo per il gesto pittorico, ma anche un profondo senso etico che lo porta a criticare il sistema dell’arte, anche alla luce della sua esperienza americana: ”Negli Stati Uniti contano soltanto le opere-decorazione. Nessuna critica sociale, tutto deve rispondere a un’estetica rassicurante, vincono il buonismo e l’eleganza della forma. Magari i collezionisti ricchi e illuminati comprano anche Egon Schiele, ma poi lo tengono nel caveau della banca, non hanno il coraggio di esporlo nel salotto di casa. Gli artisti che parlano delle contraddizioni della società sono espulsi, cacciati via, inesorabilmente”. Devalle continua e attacca il mercato dell’arte e quella che giudica la furbata di molti artisti: ”Un esempio per tutti? Maurizio Cattelan. un bravissimo pubblicitario, un manager di se stesso, ha capito che conta solo la provocazione. Cattelan è solo questo. Quando opera va al ricalco, usa il museo delle cere, quindi invecchierà presto [...] Damien Hirst? Un fenomeno dell’oggi: tratta soggetti intriganti ma non ha un linguaggio suo, cita e anche lui ricalca il vero, fa vetrine [...] Duchamp aveva reagito all’era delle macchine rovesciando i significati e proponendo un nuovo dominio dell’intelligenza. Dopo di lui per molti artisti si è aperta una stagione di vacanza: arte solo come sberleffo, provocazione, ironia, trasgressione. Dovremmo prenderne atto, questo modo di fare è finito per sempre. Per me l’anti Duchamp è Claude Lévi-Strauss che annuncia la fine del mondo. Il mondo è iniziato senza l’uomo e finirà senza di lui. I miei personaggi, le mie icone si muovono nelle tele, sperduti come gli indios Nambikwara, con la differenza che essendo artisti si sterminano per loro volontà. Solo la pittura potrà sopravvivere”. [...]» (Gianluigi Colin, ”Corriere della Sera” 23/8/2008).