Simone Bobbio, La Stampa 23/8/2008, 23 agosto 2008
SIMONE
BOBBIO
«Il grande scrittore e poeta portoghese Pessoa diceva che siamo più persone in una. Ho la fortuna di non dover timbrare il cartellino; posso svegliarmi ogni mattina e decidere cosa voglio essere»: Mauro Corona è uomo dalle molte personalità e sfaccettature. Scultore, alpinista, boscaiolo, cacciatore e scrittore, oltre a frequentatore di osterie e padre di famiglia. Ma la caratteristica che raccoglie in sé tutte queste differenti anime è certamente l’essenza montanara di Corona. Vive a Erto, in quelle case risparmiate dall’ondata d’acqua che il 9 ottobre del ’63 scavalcò la diga del Vajont per dilagare più in basso nella pianura del Piave, spazzando via il paese di Longarone.
Potremmo definirlo il montanaro più conosciuto d’Italia: le sue conferenze in giro per il Paese sono affollatissime, ma lui mantiene la fama di uomo schivo, spesso introvabile. I suoi libri sono bestseller, ma soltanto una volta ha ceduto alle lusinghe della televisione come ospite delle Invasioni Barbariche: «Mi incuriosiva vedere la Bignardi dal vivo, più che altro».
Si presenta sempre con quell’aspetto un po’ burbero; i lunghi capelli fuoriescono dalla bandana che ne fascia la testa. Estate e inverno è vestito con una semplice maglietta, disegnata da lui, le maniche tagliate con un colpo di forbice. Ai piedi gli scarponi di cuoio da cui spuntano i calzettoni di lana. La barba incolta cela i lineamenti del volto su cui brillano due occhi vispi che assecondano la verve dialettica punteggiata di battute spiritose, osservazioni salaci, dotte citazioni, un velo di misoginia e molto buonsenso popolare. Impossibile dargli del lei: si offende.
Come sei diventato un vorace lettore?
«Alla gente piace immaginare noi montanari come dei rozzi, ma non è così. Quando mia madre ci abbandonò per sfuggire alle violenze di mio padre, mi lasciò in eredità una biblioteca: Dostoevskij, Tolstoj, Cervantes e altri classici. La lettura era nel suo Dna e io mi sento in qualche modo discendente di questa fortuna. Così come sono il continuatore della passione di mio padre per la montagna, l’alpinismo e la caccia, e del mestiere di mio nonno che intagliava il legno. Già a sei anni - mio malgrado - il mio patrimonio genetico si delineava con queste caratteristiche diverse. Se fossi cresciuto in una famiglia di musicisti, avrei imparato a fare musica. Io sono ciò che ho ereditato dai miei avi. Cerco di portare avanti la tradizione, ma non per nostalgia: perché fa bene a quelli che verranno dopo».
Anche per quanto riguarda le letture, i tuoi gusti sono eterogenei e riflettono la tua indole estranea a qualsiasi etichetta? Quali sono i tuoi autori preferiti?
«Io ho letto due Tir di libri! Ma uno non può citarli tutti perché, o conosce talmente tanti titoli che non ne ha più memoria, oppure ha letto così poco che deve far finta di non ricordare. Le mie letture non sono regolari. Mi sono fatto la base con i russi: Tolstoj, Dostoevskij, Turgenev, ma anche con autori meno classici come Varlam Salamov e Andrei Platonov. Poi sono passato agli scrittori della tradizione mitteleuropea come Stanislav Lec, Hugo Von Hoffmansthal. Tra gli italiani ho amato moltissimo Calvino. E giù fino alla Terra del Fuoco con Francisco Coloane. Una sorta di viaggio letterario intorno al mondo, solo per citarne alcuni. Ma lo scrittore che più di tutti prendo a riferimento è Jean Giono. Non L’ussaro sul tetto o L’uomo che piantava gli alberi, ma il Giono autore de Il serpente di stelle e Collina. Nessuno come lui riesce a descrivere la vita e le sue pulsazioni».
La montagna è la vera protagonista dei tuoi scritti. La durezza della vita, il freddo e la fatica del lavoro convivono con le bellezze naturali, con l’anima nascosta degli animali e degli alberi. Senza dimenticare l’evento tragico e dirompente del Vajont, che ha segnato in maniera indelebile l’esistenza della tua terra. Qual è l’aspetto peculiare dello stile che ti permette di legare insieme le tue principali occupazioni, scultura, alpinismo e scrittura, così diverse e distinte all’apparenza?
«Nella mia attività di intagliatore del legno, di scalatore e di autore ho imparato che l’importante è togliere. Dal tronco grezzo è necessario levare materia per dare una forma; nell’arrampicata bisogna ridurre al massimo i movimenti altrimenti ci si stanca. E nello scrivere, bisogna selezionare le parole. Mi metto lì e scrivo mille pagine. Poi inizia il lavoro di cesellatura che porta il libro ad assumere una forma ben definita sacrificando la maggior parte delle parole che ho tirato giù, per arrivare all’essenziale. In questo sono stati fondamentali gli insegnamenti di coloro che più di tutti definisco i miei maestri».
Non hai mai nascosto il debito verso altri due grandi montanari che hanno influenzato la tua opera. Lo scultore Augusto Murer del quale sei stato allievo; e il compianto Mario Rigoni Stern, che proprio su Tuttolibri ha pubblicato uno dei suoi ultimi scritti, la recensione del tuo libro «Cani, camosci, cuculi (e un corvo)». Che ricordo conservi di loro?
«Murer mi aveva insegnato a guardare l’essenza delle cose. Un giorno mi disse: "Se vuoi rappresentare una donna che fa fatica, non ti deve importare se trasporta legna in una gerla per i boschi di Erto, oppure toglie le erbacce di una risaia in Cina. Devi rendere la fatica!". E poi Rigoni... lui che per primo mi incoraggiò a scrivere, premiando il mio primo racconto inedito La baita. Continuò anche dopo con i suoi suggerimenti; una volta si arrabbiò perché nel mio libro Il volo della martora scrissi la parola "epistassi" invece di "sangue dal naso". "Devi scrivere - esclamò - come si esprimono i montanari! Usa meno gli aggettivi, come Calvino". Stava lontano dagli strombazzi di questo nostro mondo; per me era un larice sul costone che indica la via. Mi scrisse un’ultima lettera lo scorso febbraio. "Qua la va a strappi - diceva -, va’ in montagna anche per mi". Ho sofferto più per la sua morte che per quella di mio padre». Tra gli autori contemporanei quali hanno il tuo gradimento?
«Ogni età esige la sua lettura. Certo gli autori contemporanei non si possono definire classici, ma se c’è uno che gode della mia stima, questo è Tullio Avoledo che ha da poco pubblicato La ragazza di Vajont. Oltretutto è originario del Nord-Est, come me. E poi il mio caro amico Erri De Luca, che è una spanna sopra tutti gli altri. Viene spesso a trovarmi qui a Erto, dove passiamo intere giornate a scalare insieme: alpinismo e scrittura sono le due passioni che ci uniscono. E infine leggo sempre molto volentieri gli scritti di Paolo Rumiz, anche lui mio carissimo amico e assiduo visitatore della bottega in cui mi ritiro a scolpire».
Con Rumiz hai assunto posizioni nette riguardo alla situazione politica ed economica dei nostri monti. A Erto come si vive il rapporto tra montagna e città?
«Con molta amarezza devo ammettere che la montagna è la peggiore nemica di se stessa. Ho cercato nei miei libri di comunicare al mondo di pianura la magia, insieme alle difficoltà e all’asprezza, della vita in montagna. Purtroppo da lassù percepisco un’incomunicabilità di scelte tra il mondo urbano e le terre alte. Il cittadino vuole venire in montagna per divertirsi, mentre il montanaro semplicemente vuole guadagnare soldi. Gli abitanti rimasti in montagna sono sovrastati dall’eterna miseria della povertà da cui non riescono a tirarsi fuori, perché oppressi dal mito dell’uomo di successo che ostenta ricchezza. Ma i soldi rovinano le cose belle, c’è poco da fare; soprattutto in montagna. Forse la letteratura ci può aiutare a salvare la bellezza».
La vita E’ nato a Erto, provincia di Pordenone, il 9 agosto 1950. Boscaiolo e alpinista, ha imparato a intagliare il legno dal nonno e lo ha preso «a bottega» Augusto Murer: è diventato così scultore di fama europea. E’ conosciuto anche per aver aperto 300 sentieri di roccia sulle Dolomiti d’Oltre Piave.
Le opere Il suo libro d’esordio è «Il volo della martora» (Vivalda). «Vajont. Quelli del dopo» è, invece, un racconto dei sopravvissuti della tragedia del ”63, al centro anche di «I fantasmi di pietra». Fra le altre opere, edite da Mondadori, «Storie del bosco antico» e «Cani, camosci, cuculi (e un corvo)».