Gianni Vattimo, La Stampa 23/8/2008, 23 agosto 2008
Sarà, la vicenda del professor Tappero, un segno che l’università (di Torino, nel caso) assume finalmente un volto umano (troppo umano)? Non più le tristi lotte fra cosche accademiche a cui da troppo tempo siamo abituati, ma una franca scelta dettata da una delle passioni più forti dell’uomo come tale? Ti faccio vincere, come ha spiegato la candidata esclusa, se «chini la testa» (alle 12,30, in auto, davanti all’istituto; e non certo per piangere o dormire)
Sarà, la vicenda del professor Tappero, un segno che l’università (di Torino, nel caso) assume finalmente un volto umano (troppo umano)? Non più le tristi lotte fra cosche accademiche a cui da troppo tempo siamo abituati, ma una franca scelta dettata da una delle passioni più forti dell’uomo come tale? Ti faccio vincere, come ha spiegato la candidata esclusa, se «chini la testa» (alle 12,30, in auto, davanti all’istituto; e non certo per piangere o dormire). Oppure, reazione forse più verosimile: era ora che il Tar intervenisse una buona volta sulle tante porcherie che si consumano nei concorsi universitari di ogni livello. E peccato che si sia mosso solo per ragioni formali, non entrando nel merito delle valutazioni su titoli ed esami, ma comunque sempre avendo sentito odore di scandalo sessuale che motiva quella «grave patologia procedimentale» di cui parla la sentenza di annullamento del concorso. Chi vive nell’università, purtroppo, non può non riconoscere che questa faccenda è solo una minima parte di ciò che andrebbe perseguito dagli organi (pardon) competenti. Ma lo sanno i non addetti ai lavori che, secondo i regolamenti più recenti, se un Dipartimento deve bandire un concorso pubblico per ricercatore, definisce i requisiti del soggetto cercato fin nei minimi particolari, ritagliandoli esattamente sul candidato che si vuole far vincere, tanto che nel bando manca solo il nome e cognome? Oppure che decide di limitare il numero dei titoli presentabili (volumi, saggi, ecc.) per non far sfigurare il candidato «destinato» a vincere? E in ogni caso, purché si rispettino le forme - verbali in ordine, firme su ogni pagina, ecc. - le commissioni possono assegnare i punteggi che vogliono, anche contro ogni logica e rispetto dei meriti: articoletti e brevi recensioni valutati come se fossero la Critica della Ragion pura di Kant, per far prevalere il pre-scelto. Certo, le commissioni sono composte da più professori, la loro neutralità dovrebbe essere garantita; ma quel che succede in un concorso condiziona e prepara ciò che accadrà in quelli futuri. Ecco perché, tra l’altro, nessun candidato ingiustamente trattato ricorre mai ai tribunali; il giudizio di merito della commissione è insindacabile; e soprattutto, se metti in piazza le magagne del concorso che ti ha visto sconfitto non avrai mai più la possibilità di partecipare a un altro con qualche speranza di successo. Sembra addirittura che ogni tentativo di migliorare la situazione si risolva in guai peggiori. Prendete la vicenda degli assegni di ricerca «cofinanziati»; che sono a carico per la metà, per esempio, della Regione o di altri enti pubblici, e per l’altra metà del Dipartimento o di altri enti privati che vogliano partecipare. I Dipartimenti di rado hanno fondi da mettere a disposizione. Bisogna cercare altri enti o privati che paghino. Chi trova questi mecenati? Nelle facoltà umanistiche - dove è difficile che un’impresa decida d’investire soldi - il giovane studioso candidato in pectore si cerca lo sponsor (potrebbe anche essere uno zio che fa un prestito), il quale si propone al Dipartimento che deve indire il pubblico concorso. Anche con tutte le cautele (vedi sopra) nel redigere il bando necessario, può darsi che il concorso lo vinca uno studioso diverso da quello pre-sponsorizzato. Lo sponsor-zio può allora decidere di non versare i soldi promessi, creando una quantità di problemi legali. Volete che una commissione, sia pure neutrale e democraticamente eletta, si esponga a questo esito? Farà vincere il candidato sponsorizzato. Eccetera. Altro che «servizi schifosi» prestati, in auto o anche in Istituto, al boss. La distruzione dell’università pubblica non passa solo, o principalmente, di qui. E non si vede chi riuscirà fermare lo sfascio. Stampa Articolo