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 2008  agosto 23 Sabato calendario

SABELLA

Alfonso Bivona (Agrigento) 21 novembre 1962. Magistrato. Dall’aprile 2005 giudice penale presso il Tribunale di Roma • Figlio di avvocati, dopo la maturità (al liceo classico Luigi Pirandello di Bivona), parte per il continente, destinazione Milano, dove quattro anni dopo, nell’86, si laurea in Giurisprudenza presso l’Università Cattolica (con 110 e lode, tesi in Diritto civile). Rientrato nell’isola comincia la pratica come avvocato nello studio dei genitori e nel foro si fa subito notare per una interpretazione della norma con cui fa assolvere tutti i cacciatori di frodo (in mancanza di una legge sulla caccia, la sua tesi farà giurisprudenza, e lui diventa l’avvocato dei cacciatori) • Da grande, non aveva dubbi, voleva fare l’avvocato, e solo per tornare in continente a trovare la sua fidanzata, partecipa alle prove scritte del concorso in magistratura. Le supera, ma per fargli sostenere l’orale il padre lo porta da un giudice di Sciacca, che lo convince dicendogli che superando il concorso da magistrato diventerà dopo soli cinque anni avvocato cassazionista. Nell’88, passato anche l’orale, suo malgrado inizia l’anno di tirocinio che precede l’assegnazione alle funzioni di magistrato. Se proprio doveva fare il magistrato, non aveva dubbi, sarebbe stato un civilista. Invece conosce, e vede lavorare, i due giudici antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, già impegnati nell’istruzione del maxi processo a Cosa Nostra (vedi RIINA Salvatore), e nell’89, diventato magistrato a tutti gli effetti, sceglie per sempre le aule penali • Assegnato alle funzioni di sostituto procuratore a Termini Imerese, nel 93 viene trasferito su sua richiesta presso la Procura di Palermo. Pochi mesi prima sono stati fatti saltare in aria Falcone e sua moglie, Borsellino e le loro scorte, e a capo della procura di Palermo si è appena insediato Gian Carlo Caselli (vedi) • «Il tritolo mafioso esplode a Firenze, a Roma, a Milano. I corleonesi non si arrendono, anzi, rilanciano. Bisogna fermarli e, per farlo, occorre in primo luogo arrestare i latitanti. La lista è lunghissima» (Alfonso Sabella, Cacciatore di mafiosi) • Sabella è il magistrato più giovane del pool e di quella lista ne spunterà personalmente un centinaio (tra i capi Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Pietro Aglieri, Vito Vitale, tra i gregari Enzo Brusca, Pino Guastella, Pietro Romeo, ecc. ecc.). Specializzatosi nella caccia ai latitanti fa tesoro degli anni in cui faceva pratica da avvocato difendendo i cacciatori. «Sono sempre stato animalista convinto, non mi piace la caccia alle bestiole indifese, ma […] quegli anni sono stati per me molto formativi. Da quella gente ho imparato alcuni insegnamenti fondamentali che ho poi utilizzato per il mio lavoro, quando […] ho cominciato a ”cacciare” i latitanti di mafia» • Inizio del 98, ogni giorno sulla sua scrivania un’informativa dei carabinieri o dei poliziotti che lo davano per obiettivo numero uno del latitante Vito Vitale, boss di Partinico, con un Rpg 18 (un lanciamissili) tra le mani, che voleva lanciare a tutti i costi contro di lui. Per non farsi vedere gli toccava viaggiare in finiti furgoncini di surgelati e a fari spenti di notte in autostrada, per non parlare delle bonifiche e dei cani antiesplosivi a devastargli periodicamente casa (finché, il 14 aprile, non trovò anche Vito Vitale). Una notte invece dovette andare a dormire di gran carriera in Commissariato perché era stata intercettata una Rosetta, sorella di mafiosi, mentre diceva a sua mamma che non sarebbe arrivato alla Madonna (al giorno dell’Immacolata). Il sospiro di sollievo quando scoprì che aveva solo pagato un mago per fargli un maleficio • Nel 99 viene distaccato al ministero di Giustizia come magistrato di collegamento con la Commissione Antimafia, e assume il doppio incarico come capo dell’ufficio dell’ispettorato del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dallo stesso anno diretto da Gian Carlo Caselli). Nel 2000 i mafiosi si fanno venire l’idea di dissociarsi da Cosa Nostra come un tempo i terroristi (vedi AGLIERI Pietro), e chiedono pure di fare un summit in carcere, ma Sabella ha con sé tutti i dati informatizzati di sei anni di indagine a Palermo, e gli basta usare la funzione di ricerca nel suo computer per trovare il verbale di un’intercettazione, ai tempi irrilevante, ma adesso fondamentale per provare che da anni i boss discutevano del progetto, al fine di ottenere benefici carcerari col minimo sforzo (ammettere l’evidenza, cioè essere mafiosi, ma senza collaborare con la giustizia). Carte alla mano fa bloccare l’iniziativa in pieno accordo con Gian Carlo Caselli. «L’unico risultato concreto sarebbe stato il crollo delle collaborazioni di giustizia e la possibilità per diversi boss di uscire dal carcere prima del tempo». Ma nel 2001 diventa capo del Dap Giovanni Tinebra (ex procuratore della Repubblica di Caltanissetta), favorevole a una normativa che estenda l’istituto della dissociazione ai mafiosi, e tra i mafiosi detenuti ricomincia il passaparola dell’anno prima. Sabella segnala l’opportunità di allertare la polizia penitenziaria al fine di evitare contatti anche casuali tra i boss coinvolti nell’iniziativa, e dopo sei giorni viene revocato dall’incarico (anzi, Tinebra sopprime proprio il suo ufficio), e trasferito a Firenze, nonostante la richiesta di rimanere a Roma a fare il magistrato (il giorno successivo alla sua assegnazione in Toscana il Csm applica a Roma due magistrati con meno anzianità) • Vano il ricorso al guardasigilli Roberto Castelli (in quanto tale competente a fare quello che d’iniziativa, invece, aveva fatto Tinebra), e al Csm. «Forse in quel momento [il Csm era] preoccupato della necessità ”politica” di non spaccare l’unità delle correnti censurando l’operato di un esponente di spicco di una di queste, qual era Tinebra, per dare ragione a un semplice magistrato che, invece, proprio per tutelare al massimo la sua indipendenza, aveva sempre scelto di non aderire ad alcuna corrente della magistratura. Qual ero, e sono, io» • Ottiene il trasferimento a Roma, come giudice penale, solo nel 2005. Tornerebbe a cacciare mafiosi, «ma sono consapevole che non c’è più lo spazio, le condizioni di allora sono irripetibili» • Dopo nove anni ha ripreso in mano le indagini concluse di Palermo per scrivere Cacciatore di mafiosi (2008). Le sue passioni il calcio (squadra del cuore l’Inter), e l’arte culinaria • Autodefinizioni. «Un pm da marciapiede (il copyright dell’espressione va, però, al suo inventore, il mio collega Ignazio De Francisci)».