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 2008  agosto 27 Mercoledì calendario

Vanity Fair, mercoledì 27 agosto Pioveva a Nairobi il giorno in cui George Hussein Onyango Obama, il fratello di Barack Obama, il probabile prossimo Presidente dell’America, mi portò nel ghetto in cui abitava

Vanity Fair, mercoledì 27 agosto Pioveva a Nairobi il giorno in cui George Hussein Onyango Obama, il fratello di Barack Obama, il probabile prossimo Presidente dell’America, mi portò nel ghetto in cui abitava. Ci lasciammo alle spalle gli eleganti edifici del centro, e nel traffico impazzito di biciclette, minibus e carri da soma, avanzammo in direzione est, fino a Huruma. Aveva l’aspetto del classico slum africano: vicoli di latta, baracche di lamiera, rifiuti. Mezzo milione di miserabili, accampati in vie senza nome. Obama fece strada nel fango, uno slalom tra gli acquitrini. Era nervoso. «Sei sotto choc?», chiese. «Qui viviamo con meno di un dollaro al mese»». Si fermò all’altezza di due grandi copertoni di gomma. Seduta davanti a un calderone, c’era una cugina, Mwanaisha Obama, 31 anni. Friggeva patate, che intingeva in una salsa piccante, e vendeva ai passanti. Al suo fianco sgambettava il figlio, un piccolo di tre anni, di nome Osama. Alle loro spalle, una porta verde, e una parete di assi sghembe: lotto G63. Piccole lastre coprivano i buchi. Entrammo. La sua baracca era subito a destra: due metri per tre. Dal tetto di lamiera penzolavano tre stampelle e altrettante magliette; un poster dell’Inter, uno del Milan e un vecchio calendario di spiagge esotiche completavano l’arredamento. C’era, in realtà, un’altra cosa: la copertina di un giornale locale, con la foto del senatore Barack Obama. Suo fratello. «Sei sotto choc?», chiese di nuovo. La prima volta che l’ho incontrato è stato per caso, nel villaggio ancestrale degli Obama. Ci si arriva in aereo, fino a Kisumu, la terza città del Kenya, nell’ovest del Paese. Poi un taxi fino a Kogelo, un remoto villaggio di capanne sparse, in provincia di Nyanza. Lì, sotto un albero di mango, al termine di uno stretto sentiero, c’è la casa di nonna Sarah (che in realtà nonna, nel senso stretto del sangue, non è, ma ha tirato su come un figlio il padre di Barack). L’avrete vista, in giro: da quando il «nipote» è diventato una stella della politica americana, giornali e tv sono planati da tutte le parti. Assieme al fotografo, arrivai una domenica di fine luglio, e fui fortunata. Non c’era nessuno, a parte le cinque vacche, la nonna, lo zio Said Obama e quel ragazzo timido ed emaciato, giunto in visita dalla capitale. Sgranava, in cortile, pannocchie di mais, tra le galline che beccavano a passo alternato. «Questo è George», disse lo zio Said, «il fratello piccolo del senatore Obama». Scoprii in seguito che non era quello il nome che usava: nel ghetto tutti lo chiamavano Hussein, il suo secondo nome, musulmano. Che la famiglia fosse antropologicamente interessante, era noto. (« un’opera d’arte», mi dirà, a Chicago, un ex assistente del senatore). Il padre, Barack Hussein Obama senior, aveva molto vissuto: poligamo, come quasi tutti in Kenya, alla sua morte aveva lasciato quattro mogli e otto figli. Si sapeva di Auma: molto vicina al fratello americano, nei mesi duri delle primarie democratiche gli aveva dato una mano in campagna elettorale. Si sapeva di Abongo, anche noto come Roy, anche noto come Malik: ogni tanto, dal Lago Vittoria, diceva la sua a riviste e giornali. Si sapeva dell’esistenza di tre altri Obama, uno in Cina, due a Londra: interpellati, avevano scelto di non parlare. Si sapeva anche che uno, David, era morto da giovane in un incidente di moto. All’appello mancava dunque soltanto lui: George Hussein Onyango Obama. Lo rividi qualche giorno dopo, a Nairobi. Ci incontrammo nel bar di un hotel del centro, dove accettò, per la prima volta, di farsi intervistare. Accettò di più, in realtà: di trascorrere con noi una giornata della sua vita. Aveva scelto di uscire dall’anonimato. «Vivo come un recluso, nessuno sa che esisto», disse. Se qualcuno gli chiedeva del suo cognome, e accadeva spesso, si schermiva: «Rispondo che non è un mio parente. Mi vergogno». Aveva 26 anni, gli occhi sempre amari, e poco di cui vantarsi. Si era da poco iscritto al rpimo anno di un istituto tecnico commerciale. Aveva per dieci anni vissuto per strada. Al bar dello Stanley, arrivò in compagnia di un cugino, aspirante cuoco di Mombasa, chiamato pure lui Barack Obama. Dallo schermo di una tv, a un tratto apparve la faccia del noto parente: parlava in diretta da Berlino. Era il periodo del suo tour internazionale. Una folla di 200 mila persone lo ascoltava rapita. Guardai entrambi i fratelli, quello al mio fianco, e quello in tv. Avevano gli stessi lunghi arti, le stesse grandi orecchie. Erano stati entrambi abbandonati dallo stesso padre: uno a due anni, a Honolulu, l’altro a sei mesi, a Nairobi. Dallo stesso dolore, erano poi finiti dentro parabole opposte: uno a cavallo del sogno americano, l’altro dentro il più cupo degli incubi, l’incubo africano. Difficile immaginare due destini più diversi. Chiesi a George Hussein che effetto gli facesse, vederlo alla televisione. Fu quella l’unica volta che lo vidi agitarsi: «Obama, Obama, Obama, sempre Obama! Ma non dovrebbero occuparsi anche di McCain?». Con il fratello, si erano visti un paio di volte. Della prima, conservava un vago ricordo, aveva solo cinque anni. Di quell’incontro, esiste una traccia: un paragrafo, nell’epilogo dell’autobiografia di Barack Obama, "I sogni di mio padre", in cui lo descrive come «un bel bambino dalla testa rotonda e dallo sguardo circospetto». La seconda volta, fu due anni fa. Il senatore arrivò assieme alla famiglia: il Kenya era una tappa di un giro pubblicitario in tutta l’Africa. Con lui viaggiavano, oltre alla moglie, Michelle, anche le figlie, Malia e Sasha. Le portò a Kogelo, a conoscere la nonna Sarah, davanti alle telecamere. Si fermarono per 45 minuti. « stato un incontro breve. Ci siamo parlati. stato curioso. Come incontrare un estraneo», disse George Hussein. Gli chiesi se l’avesse mai invitato negli Stati Uniti. Disse di no. Disse di non averglielo mai chiesto. «I visti per l’America sono difficili». Gli chiesi se sarebbe andato a Washington, a novembre, se avesse vinto le elezioni. Disse di no: «Adoro il Kenya». Mi resi conto che le sue risposte erano una forma di difesa preventiva; un modo per evitare nuove delusioni. Il padre di qesti improbabili fratelli era un personaggio rocambolesco, dall’ambizione feroce: Barack Hussein Obama Senior. Nacque nel 1936, su una sponde del Lago Vittoria, in un posto chiamato Kendu Bay. Era della tribù dei luo, la seconda del Kenya: gente dedita all’agricoltura e al bestiame. Suo padre, Hussein Onyango Obama, era stato il primo luo a indossare vestiti all’occidentale. Un giorno era tornato a casa coperto di buffe stoffe e gli avevano dato del folle e lo avevano cacciato dal villaggio. A quel tempo, tutti indossavano solo un lembo di pelle sui genitali. Come a tutti i luo, gli mancavano i sei denti frontali: era un rito di passaggio, tirarli ai ragazzi. Forse per questo, era finito a fare il cuoco per i colonizzatori inglesi. Non per sottomissione: semplicemente pensava che avrebbe imparato qualcosa di nuovo («Il senatore somiglia al nonno», disse lo zio Said). Barack Hussein Obama fu il suo secondo figlio. Il suo primo strapp alla tradizione fu riuscire a tenersi i denti. Il secondo, andare a scuola dai missionari. Per arrivarci, si faceva sei chilometri ad andare e sei a tornare, accompagnato da mamma Sarah («Il senatore è tutto il padre», disse lo zio Said). Crebbe irrequieto, e ribelle: emigrò a Nairobi; conobbe delle americane, che gli spiegarono come funzionava, nel loro grande Paese, il sistema universitario. Si innamorò di una fanciulla del villaggio, e la sposò: nacquero due figli. Li lasciò senza pensarci il giorno in cui ottenne una borsa di studio per andare negli Stati Uniti. Fu il primo studente africano a sbarcare a Honolulu, all’Università delle Hawaii. Lì, il keniano «nero come la pece» incontrò una pallida ragazza del Kansas, Ann Dunham. Non le disse di avere già una moglie a casa; gli parve un dettaglio ininfluente. La sposò nel 1960. Un anno dopo nasceva Barack. Due anni dopo, sempre in ascesa, sempre senza pace, abbandonò anche loro e andò a studiare economia a Harvard. Barack rivide il padre una volta sola, a dieci anni. Trascorsero insieme, a Honolulu, un disastroso natale. Poi più niente, o quasi: notizia sporadiche, i racconti di sua madre e un profondo dolore. Come scrisse anni dopo nella sia autobiografia: «C’era un problema: papà era scomparso». Papà era tornato in Africa. Faceva, all’epoca, una bella vita. Era diventato uno dei tecnici del primo governo post-coloniale di Jomo Kenyatta. Si era maritato un’altra volta, la terza, ed era diventato padre di altri due bambini. Ogni tanto, nei fine settimana, tornava al villaggio dalla prima signora, e dentro la capanna di paglia di Kogelo nacquero altri due piccoli Obama. Così, spensierato, iSenior si dava da fare. Poi il vento girò, e assistette al declinare delle sue fortune. Denunciò la corruzione della nuova classe dirigente, e quella gli diede il benservito. Lo fecero fuori. Prese a bere. Prima di morire, probabilmente ubriaco, a 46 anni, fece in tempo a mettere incinta una quarta sposa. George Hussein Onyango era in fasce quando il padre si schiantò con l’auto. Barack, l’americano, studiava a quel tempo alla Columbia University di New York. Lo informò una zia che non conosceva, con una telefonata da Nairobi: «"Barry? Tuo padre è morto". La linea cadde. Mi sedetti sul divano e osservai le crepe dell’intonaco cercando di quantificare la perdita» (da "I sogni di mio padre"). Nel 1987, a 26 anni, prese finalmente un aereo per Nairobi, alla ricerca della verità, o forse soltanto della pace che dà la chiusura di un cerchio. La trovò sotto un albero di mango, al limitare di un campo di grano, nel cortile di nonna Sarah, dove pianse per la prima volta sulla tomba del Vecchio. Era pronto: ci aveva molto riflettuto, si era molto logorato. Il bambino di Honolulu, lo vedremo in seguito, aveva fatto molta strada. A quella stessa età, George Hussein era ancora intrappolato nei fantasmi del passato. una legge della natura umana, il tormento di chi si sente rifiutato. Mi resi conto, allora, che quel ragazzo emaciato era oggi quello che è stato ieri Barack Obama. Quello che egli sarebbe stato ancora oggi, se avesse avuto la ventura di nascere, invece che alle Hawaii, a Nairobi. «Almeno Barack l’ha conosciuto. Voglio conoscerlo anch’io, voglio conoscere mio padre», disse George Hussein, piano. eravamo seduti a bere birra al Tusker sul balcone di un bar con vista sul fango di Huruma. Jael, sua madre, si era da tempo risposata, aveva avuto altri figli e viveva lontano. Lui era solo. Ogni tanto, a dargli una mano, provvedeva il fratello maggiore, Abongo: un signore che un tempo si faceva chiamare Roy e adesso, invece, Malik, in arabo. Aveva cambiato nome, dopo la conversione all’islam. Era un curioso personaggio. Possedeva un polveroso negozio di elettronica in un polveroso paesino dell’entroterra dei luo, a una ventina di chilometri dalla casa di nonna Sarah. Gli telefonai, per un’intervista. Chiese soldi. Disse: «La storia di mio fratello ha preso una piega commerciale, e io deluderei la mia comunità se non le chiedessi un contributo». Che comunità? «La mia». Che contributo? «Un contributo». Malik era probabilmente il fratello più vicino a Barack Obama. Era andato al suo matrimonio, a Chicago. Era andato alla sua inaugurazione, al Senato. Gli spiegai che era contrario ai miei principi pagare per un’intervista. Rispose: «Peccato», e mise giù. Raccontai l’episodio a George Hussein e quello alzò i sopraccigli. Era un tic, quasi. Voleva dire no, o non so, o non importa: «Nella vita uno fa quello che deve fare». Lui era abituato a fare da sé. «Ho dovuto imparare a sopravvivere», disse. «A prendermi quello che mi serve». Nairobi non è un luogo ameno, men che meno lo è il ghetto. A Huruma, lo scorso gennaio, negli scontri post elettorali, almeno sei persone sono morte sotto colpi di machete. «La polizia qui non ti arresta, ti spara direttamente. Due miei amici li ho visti morire ammazzati». Gli chiesi come si era procurato tutte quelle piccole cicatrici. «Facendo a botte», disse. «Sono bravo a fare a botte». Da qualche mese, stava cercando di darsi una ripulita. «Nel caso tuo fratello diventi presidente?», chiesi. Innalzò i sopraccigli. Studiare, era tornato a studiare. Fumava poche sigarette Portman, le più economiche, che comprava una alla volta. Provava a bere poca birra, non i litri che si scolava un tempo, quando gli servivano sette Guinness per raggiungere un piacevole torpore. Tornava a casa, la sera, nella capanna due per tre, oltre la parete di legno e lamiera. Soprattutto, fratello o non fratello, sembrava propenso, dopo la nostra partenza, a continuare a vivere una vita anonima, e solitaria. Prima di lasciare Huruma, gli chiesi se avesse una e-mail. L’annotò, senza fare una piega, su un pezzo di carta. Giorni dopo, gli scrissi: come la via senza nome in cui abitava, anche su internet George Hussein Onyango Obama non aveva una casella postale. Imma Vitelli