Giulia Galeotti, L’Osservatore romano 22/8/2008, 22 agosto 2008
L’Osservatore romano, venerdì 22 agosto Il 7 settembre di sette anni fa, a New York, medici e direttori di ospedali decisero di fissare una riunione straordinaria per individuare nuove modalità e strategie onde risolvere il problema, ormai drammatico, della scarsità di sangue disponibile
L’Osservatore romano, venerdì 22 agosto Il 7 settembre di sette anni fa, a New York, medici e direttori di ospedali decisero di fissare una riunione straordinaria per individuare nuove modalità e strategie onde risolvere il problema, ormai drammatico, della scarsità di sangue disponibile. Quella riunione non si tenne mai. Era il settembre 2001. Quattro giorni dopo, migliaia di persone si sarebbero messe pazientemente in fila: il New York Blood Center, la struttura che fornisce la maggior parte degli ospedali cittadini, raccolse più di cinquemila unità di sangue in sole 12 ore. Anche a Washington, i centri deputati furono letteralmente sommersi dai donatori: si faticò non poco a trovare personale capace di testare il sangue ricevuto, e di accogliere tutta quella quantità inattesa. Con il racconto di questi quattro giorni di cronaca inizia Tissue Economies. Blood, organs, and cell lines in late capitalism (Durham, 2006, Duke University Press, pagine 240, sterline 74,95) di Catherine Waldby (docente di sociologia medica all’Università del New South Wales) e Robert Mitchell (assistant professor di inglese alla Duke University). Tale episodio di sette anni fa, spiegano gli autori, rischia di essere tra le ultime espressioni di un mondo ormai in via di sparizione. Le migliaia di persone che hanno fatto file di ore per offrire il loro sangue (ma catene analoghe si sono avute per altri tessuti, come la pelle), hanno agito avendo in mente un modello di corpo e di relazioni tra i corpi che abbiamo dato per scontato nel corso del Novecento, e che invece, nel tardo capitalismo attuale, rischia di tramontare per sempre. L’idea che un corpo possa condividere con un altro la sua vitalità, ricorrendo a una redistribuzione di tessuti (grazie alla tecnologia medica) da donatore a ricevente in nome di fondamentali valori condivisi quali l’altruismo, la solidarietà, il senso della nazione e della comunità, sembra infatti in via di surclassamento a causa dell’irrompere sulla scena di un nuovo mercato e di una nuova economia: l’economia dei tessuti (il libro utilizza il termine tissue in senso generico, includendo sangue, organi e ogni altro tipo di materiale vivente proveniente dal corpo umano). Lo scenario non contemplerebbe più persone sane che donano qualcosa di sé ai malati e ai bisognosi, ma persone che, potendo fisicamente e trovandosi costrette a farlo, cederebbero propri tessuti a quanti possono permetterseli. Il donatore che dà la vita, o anche solo la salute a chi sta male (riferendosi alle donazioni di sangue, Douglas Starr ha parlato del new social contract), verrebbe scalzato dal proprietario di un bene che, in cambio di denaro, lo cede a un altro, un altro che non è strettamente chi ne ha bisogno, ma chi riesce a ottenerlo. Le biotecnologie, i progressi scientifici e medici sempre più nuovi e rivoluzionari, stanno facendo aumentare in misura esponenziale il numero di tessuti umani (dalla pelle alle ossa, dai cordoni ombelicali alle cornee, dalle valvole cardiache ai gameti) che oggi è possibile raccogliere, conservare e distribuire, con finalità ora di ricerca, ora terapeutiche. Man mano che lo scenario si amplia, questa circolazione sempre più diffusa di parti umane viene a sollevare questioni etiche, sociali ed economiche, connesse a chi dona e a chi vende, a chi è incluso e a chi è escluso, a cosa è un corpo, a quale insieme di tessuti fa un corpo. Che implicazioni ha la disaggregazione del corpo in parti e frammenti? Fino a che punto ciò non tocca la personalità dei soggetti coinvolti? Tanto per complicare il quadro, il rapporto non sempre è biunivoco: i tessuti di un soggetto possono essere parcellizzati in tante parti per tanti destinatari, rarefacendo l’intero processo. Indagando un ampio materiale (articoli scientifici, relazioni e dossier, decisioni legali, interviste, audizioni, pareri e così via), Catherine Waldby e Robert Mitchell cercano di sviscerare il nodo e l’essenza di queste economie globali in rapido sviluppo, analizzando in particolare le tissue economies che stanno prendendo piede in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Oggi, dunque, non esiste più quella separazione assoluta che, invece, per decenni ha retto il campo, e cioè la differenza tra il tessuto come dono (come qualcosa che va scambiato in transazioni necessariamente separate per la loro intima essenza dal versante commerciale) e il tessuto come merce (un bene, cioè, che viene scambiato a fini di profitto). Contemporaneamente, del resto, si assiste anche a un aumento esponenziale delle donazioni autologhe (un autentico controsenso, com’è evidente) in campo, ad esempio, di trasfusioni o di cordoni. Ma come dobbiamo comportarci dinnanzi alla crescita di queste economie autologhe? o non è moralmente lecito un sistema improntato su singoli che conservano i loro tessuti per la loro stessa utilità? Ovviamente non v’è un solo responsabile per questo rapido oscuramento nella linea di demarcazione tra donazione e commercio. Vi sta concorrendo una pluralità di fattori. Oltre alle tecnologie scientifiche, alla globalizzazione nello scambio dei tessuti, agli sviluppi in termini antropologici, sociologici e legali che sta vivendo la definizione di corpo, vi sono ragioni strettamente economiche. Del resto il libro, nel suo appello a definire una new body politic, si pone proprio in un’ottica economica, mettendo in luce il fatto che esiste ormai una sub-economia che si occupa di tutto questo. Un ambito al contempo molto intimo e personale, ma anche crudelmente impersonale. V’è una conseguenza particolare che deriva dal passaggio dal dono al mercato, dalla solidarietà al commercio. Se singoli tessuti, singole parti del corpo hanno un valore, va da sé che il corpo umano stesso - nel suo complesso e nella sua essenza - finisce per ritornare oggetto di valutazione, di scambio e, quindi, di potenziale compravendita in termini economici e monetari. il non detto sotto gli occhi di tutti, è il non detto da dirsi perché tutti lo vedano. A suo tempo, Kant puntualizzava che ogni cosa ha un prezzo o una dignità - in alternativa. Tutto ciò che ha un prezzo può essere rimpiazzato con qualcosa di equivalente, mentre tutto ciò che sta oltre il prezzo - e che quindi non ammette equivalente - ha una dignità. Tertium non datur. Giulia Galeotti