Sissi Belomo, Il Sle 24 Ore 21/8/2008, 21 agosto 2008
Lontano dai nostri confini, ma non certo dai nostri interessi. Il conflitto in Georgia ci riguarda molto più da vicino di quanto la retorica dei nazionalismi locali possa farci credere
Lontano dai nostri confini, ma non certo dai nostri interessi. Il conflitto in Georgia ci riguarda molto più da vicino di quanto la retorica dei nazionalismi locali possa farci credere. In quanto italiani siamo infatti legati a doppio filo alla Russia e alle repubbliche ex sovietiche per i nostri approvvigionamenti energetici: Mosca soddisfa circa il 30% del nostro fabbisogno di gas e oltre il 15% delle importazioni di greggio. Di queste ultime, un altro 10-12% arriva, in gran parte proprio via Georgia, dai pozzi dell’Azerbaijan e del Kazakhstan, sul Mar Caspio. Percentuali che già oggi denunciano una dipendenza superiore alla già elevata media europea e che nei prossimi anni sono destinate a crescere ancora. La reazione dei mercati petro-liferi, con le quotazioni in forte discesa anche nei giorni più drammatici della crisi nel Caucaso, non deve trarre in inganno. A muovere i carri armati russi – e a muoverli proprio quest’estate – non sono state soltanto le pulsioni separatiste dell’Ossezia del Sud, né l’avvicinamento di Tbilisi alla Nato. Almeno altrettanto importante è stata la necessità da parte di Mosca di riaffermare ad ogni costo la propria egemonia sulle risorse e sulle infrastrutture energetiche dell’Asia centrale: beni sempre più preziosi non solo per la sicurezza energetica dell’Occidente, ma anche per la sopravvivenza politica ed economica della Russia, che si trova oggi a fronteggiare una doppia sfida. Da un lato, la sua produzione domestica di idrocarburi appare in affanno. Dall’altro, vi sono crescenti minacce al suo ruolo dominante nella ragnatela di pipelines che attraversano il Vecchio Continente. Scene di guerra in Georgia Il primo problema è ben noto all’Agenzia internazionale per l’energia,che ha più volte sollevato l’allarme: complici il boom dei consumi interni e l’inadeguatezza degli investimenti, la Russia entro il 2015 rischia di non avere abbastanza gas per soddisfare la crescente domanda dei suoi clienti europei. Lo stesso presidente di Gazprom, Alexei Miller, ha ammesso lo scorso 4 luglio che l’output russo di metano ”diminuito per la prima volta nel 2007 dell’1,3% a 548,5 miliardi di metri cubi ”non riprenderà a crescere almeno fino al 2009. Quanto al petrolio, per la prima volta da dieci anni nel 2008 la Russia potrebbe accusare un calo di produzione: nei primi 7 mesi di quest’anno sono stati estratti in media 9,76 milioni di barili al giorno, l’1%in meno rispetto allostesso periodo del 2007. A metà aprile il vicepresidente di Lukoil, Leonid Fedun, aveva dichiarato al Financial Times di ritenere che la Russia con i 10 mbg estratti nel 2007 abbia ormai raggiunto il picco massimo della sua produzione petrolifera. Il crescente ostracismo di Mosca di fronte all’ingresso di capitali stranieri non può che aggravarei problemi. Un esempio per tutti, il progetto per lo sviluppo dei giacimenti di Sakhalin, che dopo il ridimensionamento forzato della partecipazione di Royal Dutch Shell, sta ora accusando rallentamenti. Click here to find out more! Di fronte a una situazione tanto difficile, la "supremazia dei tubi" appare ancora più cruciale agli occhi del Cremlino. Tanto cruciale, forse, da giustificare persino il ricorso alle armi. Le minacce a tale supremazia sono sempre esistite. La più grave è stata forse proprio la realizzazione della Baku-Tbilisi-Ceyhan (Btc), che ha creato una via di uscita alternativa per il greggio del Mar Caspio, capace di scavalcare sia la Russia sia l’Iran. Mosca l’ha tollerata a fatica, così come non ha mai nascosto il suo fastidio per la Baku- Supsa, altra pipeline (di capacità peraltro molto limitata) che trasporta il greggio del Caspio verso il Mar Nero attraverso la Georgia e che è stata rimessa in funzione solo da un paio di mesi dopo un lungo blocco. Negli ultimi mesi, tuttavia, Tbilisi si è spinta ancora più in là nel suo tentativo di affermarsi come hub energetico alternativo alla Russia. Prima di tutto, ha potenziato gli scali petroliferi sul Mar Nero. Appena tre mesi fa, ha inaugurato il nuovo terminal di esportazione di Kulevi, accanto a Poti: la struttura, di proprietà della Socar, la compagnia statale azera, ha per il momento una capacità di 100mila bg, ma c’è già in programma un raddoppio nel giro di due anni, più un altro eventuale raddoppio quando entrerà in produzione il supergiacimento kazhako di Kashagan. Dallo scorso febbraio d’altra parte Astana, attraverso KazMunaiGas, possiede già un altro terminal georgiano: quello di Batumi,bloccato anch’esso (come quello di Poti-Kulevi) dai bombardamenti russi. Ma la Georgia non si è limitata a potenziare i porti. Sta pensando ancora più in grande: a progetti transnazionali, che vedono coinvolti anche altri Paesi invisi a Mosca, come l’Ucraina e la Polonia, entrata ancor più nell’occhio del mirino con la decisione di ospitare nel suo territorio i missili Usa. Meno di un anno fa, il 10 ottobre 2007, i presidenti di Georgia, Ucraina, Polonia, Lituania e Azerbaijan hanno firmato a Vilnius un accordo forse decisivo per rilanciare il vecchio progetto di estendere la pipeline Odessa-Brody fino alla località polacca di Plock, da dove parte un altro oleodotto verso il porto di Danzica. Il consorzio Sarmatia (cui hanno aderito le compagnie petrolifere nazionali dei cinque Paesi) ha dato il via a uno studio di fattibilità, per la realizzazione dell’opera: un obiettivo finalmente tornato realistico, poiché si sta avviando a scadenza il contratto tra l’ucraina Ukrtransnafta e la Tnk-Bp, che dal 2004 utilizza la pipeline nella direzione inversa a quella per cui fu costruita, ossia per trasportare le forniture di greggio russo dall’oleodotto Druzhba verso il Mar Nero. Dagospia 21 Agosto 2008