Marcello Sorgi, LA STAMPA 21/8/2008, 21 agosto 2008
Si può leggere, o rileggere, Il Gattopardo come un libro d’attualità, non solo il grande romanzo storico che divenne il manifesto di un certo modo di essere dell’Italia Anni Sessanta
Si può leggere, o rileggere, Il Gattopardo come un libro d’attualità, non solo il grande romanzo storico che divenne il manifesto di un certo modo di essere dell’Italia Anni Sessanta. Pubblicato in ritardo, postumo rispetto all’aristocratico autore Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che morì con la malinconia di sentirsi rifiutato da Vittorini e lasciò il testo incompleto, Il Gattopardo trovò ad accoglierlo l’Italia appena uscita dal dopoguerra e gli italiani affacciati sul «boom» economico, la prima moderna rivoluzione repubblicana in cui miseria, ambizioni, tenacia, emigrazione, rivalità culturali ed etniche, incomprensioni tra Nord e Sud, si mescolavano sullo sfondo di un cambiamento, e di un generale disorientamento, che poi portarono insieme i vantaggi di un diffuso benessere e i germi del turbolento decennio successivo. Sulle inconfessabili inquietudini degli italiani, il libro di Tomasi di Lampedusa planò con quella sua terribile massima, «bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale» che il principe Fabrizio Salina pronuncia davanti all’ufficiale piemontese Chevalley, venuto a magnificare, davanti all’autorevole interlocutore che si definisce «semidio», le prospettive della nascente Unità d’Italia. A quel punto, nel libro, tutto o quasi tutto è accaduto: la rigida chiusura, il senso di esclusività dell’aristocrazia siciliana mostrano le loro crepe, la società è mista, le essenze pregiate dei profumi inglesi si confondono con l’afrore della vita contadina: il giovane Tancredi, nipote del Principone, ha trovato l’amore della bella Angelica, e il padre della ragazza, il furbo mezzadro Calogero Sedara, ha potuto salire i gradini dello scalone reale di Palazzo Lampedusa. Forse è proprio di qui, dall’entrata in scena di don Calogero, che bisogna ripartire, per una nuova lettura del Gattopardo. Non dal cinismo rassegnato del Principe, perché non è vero che tutto resterà uguale, tutto invece cambierà. E, guardato con gli occhi di oggi, Sedara diviene, se non proprio l’altro protagonista, il vero antagonista del Principe, l’uomo simbolo della nuova Italia che sta per affermarsi. Certo è difficile far paragoni, il rischio di forzature è continuamente in agguato, la Sicilia di fine Ottocento non c’entra niente con l’Italia dei giorni nostri: eppure, nella splendida descrizione che Tomasi fa del controverso passaggio storico all’Unità, qualcosa, forse più di qualcosa, riecheggia gli anni della nostra transizione, della Seconda Repubblica che non riesce mai a seppellire definitivamente la Prima, il clima, le contraddizioni, le spinte e le resistenze del nostro tempo inerte. in questo contesto, con un pizzico di fantasia, che Sedara forse può far pensare, può ricordare Berlusconi. Si dirà che l’accostamento è improprio, che la Sicilia feudale del Principe e del mezzadro hanno poco a che fare con la Brianza del Cavaliere e l’Italia dei nostri giorni, per non dire del ruolo del Piemonte di allora e di quello, ben diverso, di oggi. Eppure, il carattere, l’irruenza, la forza dei personaggi sono le stesse, in un ideale seguito del Gattopardo Sedara avrebbe di sicuro preso il posto del Principe. Don Fabrizio è al tramonto, di lì a poco la morte verrà a chiudere anche simbolicamente la sua parabola personale, quella della sua generazione e di un’intera classe dirigente. Dietro di lui, infatti, tutta l’aristocrazia siciliana è come ripiegata ed estranea alla novità dell’Italia unita, incapace di muoversi, di agganciare il corso della storia, di ritrovare un ruolo, un compito, un’utilità. Mentre attorno a Sedara, al contrario, s’intuisce il ribollire della classe media, furba, veloce, flessibile, pronta al compromesso, determinata a vincere a ogni costo. Il Gattopardo non dice cosa succederà dopo la morte del Principe e l’affermazione di Sedara. Ma ci lascia capire, senza ombra di dubbio, che il mezzadro è il vincitore. Se il paragone tra Sedara e Berlusconi è azzardato, ma possibile, più difficile è quello che riguarda il Principe. Don Fabrizio è uomo del suo tempo, è un aristocratico pre-repubblicano, il suo modo di ragionare, di comportarsi, somiglia solo in parte a quello arcitaliano dei vecchi democristiani: per questo, la sua illusione di galleggiare sul cambiamento sarà destinata a infrangersi sulla realtà. difficile, forse impossibile, confondere i tratti salienti di questo grande personaggio con una qualsiasi delle maschere dc che abbiamo imparato a conoscere nel decenni della Prima Repubblica. No, don Fabrizio è diverso, è un conservatore dichiarato e mancato, come forse in Italia non c’è mai stato. La sua grandezza sta nella sua rinuncia, la sua saggezza sta nella consapevolezza che la sua voce è ormai troppo debole per opporsi alla retorica del cambiamento. E la sua ombra, alla fine, si allunga cupamente sull’erede Tancredi. Che vivrà nel nuovo tempo, sottomesso a Sedara e alla bella Angelica, da uomo e non da semidio, con la sua indispensabile leggerezza. L’estate è la stagione in cui si è più disposti a leggere o a rileggere i grandi libri. La Stampa ha chiesto alle sue firme di raccontare ai lettori i capolavori della letteratura mondialeGiuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo 1896 - Roma 1957) è stato l’autore di un unico romanzo, Il Gattopardo, pubblicato postumo nel 1958 da Feltrinelli dopo varie traversie editoriali che amareggiarono lo scrittore. Aristocratico di nascita, cugino del poeta Lucio Piccolo, dopo gli studi di giurisprudenza Tomasi combatté a Caporetto e fu fatto prigioniero dagli austriaci. Spese la vita viaggiando, incontrando personaggi illustri (fra cui Montale e la Bellonci), scrivendo racconti e saggi su Stendhal, Shakespeare e la letteratura inglese, anche questi pubblicati postumi. Nella foto in basso Marcello Sorgi, autore per Sellerio del dialogo con Andrea Camilleri intitolato La testa ci fa dire.