Franco Marcoaldi, la Repubblica 20/8/2008, pagina 46, 20 agosto 2008
Lorenzo Mattotti. Castellina (Pisa). «La prima volta che misi piede a Parigi faceva un freddo allucinante e finii a letto ammalato per una settimana intera
Lorenzo Mattotti. Castellina (Pisa). «La prima volta che misi piede a Parigi faceva un freddo allucinante e finii a letto ammalato per una settimana intera. In questa città non ci metterò mai più piede, mi dissi». Mai dire mai. Da dieci anni infatti Lorenzo Mattotti vive proprio nella capitale francese, che gli ha offerto un ideale trampolino di lancio per il suo ultradecennale "racconto per immagini", sviluppato nei più diversi ambiti: dal fumetto all´illustrazione giornalistica, dai manifesti ai libri, dai quadri al cinema d´animazione. La sua fama è decisamente superiore all´estero che in Italia, dove da qualche anno trascorre le estati in una bella casa dell´entroterra pisano. «Dopo aver frequentato Architettura a Venezia, mi trasferii a Milano per coronare l´antica passione del disegno, che coltivavo da quando avevo dodici anni. All´inizio le cose non andarono affatto bene. Su Linus, l´unico tra i giovani disegnatori a non comparire mai era il sottoscritto. Eppure, questa difficoltà iniziale avrebbe rivelato nel corso del tempo il suo lato positivo, perché nella speranza di essere pubblicato fui costretto a sperimentare le modalità più diverse: dalla fantascienza al giallo al racconto introspettivo. Poi, finalmente, Oreste del Buono mi chiese di fare delle piccole storie sul calcio e le cose cominciarono a girare. Nel frattempo era iniziata la mia collaborazione con lo sceneggiatore Jerry Kramsky, con il quale avrei poi realizzato la maggior parte dei miei lavori». Ha mai percepito la definizione di "autore di fumetti" come limitante, riduttiva? «Assolutamente no. Proprio in quegli anni e proprio a Milano si respirava un sentimento di grandissima fiducia nei confronti del fumetto, che da mero genere si stava affermando come mezzo espressivo a tutti gli effetti, al pari del cinema e della letteratura. Ora la si chiama "graphic novel", definizione che io non amo particolarmente. Hugo Pratt la definiva "letteratura disegnata", altri "narrazione per immagini". Ma erano e sono fumetti. Resta comunque che il decennio tra la metà degli anni settanta e la metà degli anni ottanta fu un periodo di grande vitalità: penso all´area di Frigidaire, con Liberatore e Andrea Pazienza, al nostro gruppo di Valvoline, ad Altan. Tra i sudamericani stavano emergendo gli argentini José Muñoz e Carlos Sampayo. In Francia c´erano Tardi e Moebius, in America Spiegelmann. Ma, ripeto: il vero volano internazionale era rappresentato proprio da Milano». E poi cosa successe? «Successe che dopo le prime televisioni private, apparvero i primi video. E al cinema, gli effetti speciali. Gli americani in particolare capirono che il fumetto era una vera e propria miniera dell´immaginario. E succhiarono il possibile da quella fucina: il film Guerre stellari, tanto per fare un esempio, è figlio di Metal Hurlant. E´ figlio di quei visionari, dei grandi disegnatori di fantascienza francesi. A cominciare da Moebius. Ma naturalmente, a lungo andare, l´avvento del video, degli effetti speciali al cinema e più in generale dell´immagine tridimensionale, hanno eroso spazio al fumetto. Quanto a me, ho continuato per la mia strada piuttosto solitaria: e tra la spettacolarità e la sincerità, ho sempre privilegiato la seconda. Una onesta ricerca introspettiva e fantastica che può anche sconfinare nella bizzarria e nella marginalità, senza peraltro coltivare mai il mito dell´emarginazione in quanto tale e men che mai l´autoreferenzialità. Mi è sempre piaciuto giocare con il linguaggio, sperando di condurre il lettore in quei territori di confine che stanno tra il reale e l´immaginario. Anche se so benissimo che si lotta sempre contro le convenzioni e il crescente appiattimento dell´esperienza». Il progressivo avvicinamento alla Francia, a cosa è legato? «Dopo quella bellissima stagione, in Italia la figura dell´autore di fumetti era crollata. Chiudevano giornali e case editrici. Si era interrotto quel rapporto diretto e continuativo tra autore e pubblico che aveva consentito una grande sperimentazione. E via via si è imposto il fumetto seriale: Dylan Dog, per intenderci. In Francia, al contrario, è stato impostato proprio allora un importante lavoro di base che ha creato un pubblico affezionato, fedele. Al di là degli inevitabili alti e bassi del mercato. Ed è arrivato il mio primo libro di un qualche rilievo, Spartaco, forse il più sperimentale. Pubblicato da Metal Hurlant e solo successivamente in Italia. Allora ho intuito che la Francia era per me il luogo ideale». Essere conosciuto al di là delle Alpi più che da noi, è qualcosa che l´amareggia? «Ora assolutamente no. Un tempo sì. Ma al di là della situazione oggettiva, ci sono anche delle ragioni soggettive. Io non sono mai stato un vero interprete della realtà italiana. Esistono autori che sanno parlare del proprio paese, che lo indagano con straordinario talento: penso ad Altan in Italia e a Tardi in Francia. In tal senso, io non sono né francese né italiano: piuttosto un apolide. Anche perché, a partire da Spartaco, nelle mie storie il linguaggio si è fatto decisamente più onirico e visionario e hanno assunto un peso crescente i riferimenti pittorici. Ed è nato Fuochi, che mi ha dato una visibilità internazionale proprio mentre i riferimenti italiani decadevano progressivamente, a vantaggio dei rimandi a Tarkovskji, Herzog, Stevenson. Quel processo di progressivo sprofondamento nell´inconscio è giunto a definitiva maturazione proprio ora con Profondità, un lavoro in mostra al chiostro di Voltorre, vicino a Varese, dove do conto di tutta la mia ricerca slegata dalla dimensione della commissione». Questo è un punto di particolare interesse. La commissione vincola la libertà artistica o al contrario ne accresce il suo potenziale inespresso? «Innanzitutto le prime commissioni mi riempirono di gioia, perché avevo bisogno di mangiare. Fuochi mi aveva dato la fama, ma facevo una gran fatica per la crisi del fumetto di cui si parlava prima. E proprio allora ebbi la fortuna di essere cercato dalla rivista di moda Vanity. In precedenza mi ero soltanto divertito a fantasticare col mio mondo; ora, per la prima volta, lavoravo! Dovevo rispettare i ritmi di un giornale: essere preciso nella consegna ed efficace nel rispondere a una precisa richiesta. Tutte regole sanissime. Senza contare l´enorme allargamento del mio campo d´azione che ne è derivato. Ho cominciato a fare manifesti pubblicitari, a lavorare per la musica. A illustrare libri per bambini. A inoltrarmi in mondi ignoti e giganteschi: se non avessi ricevuto una commissione, mai avrei illustrato la Divina Commedia o Pinocchio. E mai sarei passato a un progetto di film d´animazione sullo stesso Pinocchio a cui sto lavorando ora con Enzo D´Alò. Intendo dire che progressivamente il piano della creatività pura si è mescolato con quello della commissione. Talvolta non saprei più dire dove comincia uno e finisce l´altro». E´ talmente vero che l´attenzione all´universo femminile, nata dalle richieste delle riviste di moda, si è poi trasferita e trasformata negli acrilici o negli inchiostri su carta nepalese, dove lei esprime la sua creatività in totale assenza di limiti. «Noi siamo come macchine e dobbiamo tenerci in costante allenamento: la disciplina, il fare reiterato, si trasformano in veri e propri esercizi spirituali. A me piace disegnare, a trecentosessanta gradi. E credo di aver appreso piuttosto bene, nel corso del tempo, la struttura dell´immagine. Credo di conoscerne i codici e l´alfabeto. Ma non appartengo alla stirpe degli autori "univoci" che ripetono lo stesso tratto negli ambiti più diversi, anche perché riconosco che in ciascun campo domina una logica diversa. Così, inevitabilmente, sperimento, ricerco in continuazione. Del resto, provo una grande angoscia nell´essere incasellato. Io amo l´insicurezza, la fragilità, l´errore. Amo Robert Wyatt, il cantante dei Soft Machine, con quella sua voce così fragile che a ogni istante ti viene da dire: "non regge, non regge´. Mentre riesce sempre ad arrivare fino in fondo. Toccando il cuore, proprio perché rischia di cadere a ogni momento». Vale lo stesso anche per Mattotti, artista inclassificabile, che si avventura in territori sempre nuovi, consapevole del rischio. Basti, per tutti, l´esempio di un´opera solo apparentemente secondaria come il libro Al finire della notte (Tricromia). Racconta la storia di un uomo che si allaccia le scarpe ai bordi del letto. Quel letto si è enormemente ingrandito: si è trasformato in «una pianura; un mare, un colore. Una vasta superficie capace di racchiudere l´intera notte che aveva appena passato, con tutti i sogni, gli incubi, e i suoi misteri. Un buio, un peso, un grande muro». Grazie a una serie di tavole sospese tra il mondo di Hockney e quello di Steinberg, due suoi adorati maestri, Mattotti crea un´opera che colpisce dritto al cuore di chi guarda, ma sfugge a qualunque tassonomia. Perché il nostro paese fa più fatica di altri a riconoscere il valore degli eterodossi, degli irregolari? Franco Marcoaldi