Vanity Fair, 21/8/2008, 21 agosto 2008
Lo stesso sangue, lo stesso dolore, lo stesso padre che li ha abbandonati bambini: ma uno è in corsa per la Casa Bianca e l’altro vive in una baraccopoli africana
Lo stesso sangue, lo stesso dolore, lo stesso padre che li ha abbandonati bambini: ma uno è in corsa per la Casa Bianca e l’altro vive in una baraccopoli africana. George Hussein Onyango Obama, il fratello dimenticato di Barack Obama, il più giovane e il più sfortunato non si era mai fatto avvicinare da nessuno: con una giornalista di Vanity Fair Italia ha passato una giornata nel ghetto in cui abita: «nessuno sa che esisto», ha dichiarato. «Qui viviamo con meno di un dollaro al mese» racconta mentre mostra il posto dove vive, a Huruma, periferia di Nairobi. La sua baracca, due metri per tre: dal tetto di lamiera penzolano tre stampelle e altrettante magliette; un poster dell’Inter, uno del Milan e un vecchio calendario di spiagge esotiche completano l’arredamento. E un’altra cosa: la copertina di un giornale locale, con la foto del senatore Barack Obama. Suo fratello. Nel ghetto tutti lo chiamano Hussein, il suo secondo nome, musulmano. Il padre, Barack Hussein Obama senior, aveva molto vissuto: poligamo, come quasi tutti in Kenya, alla sua morte aveva lasciato quattro mogli e otto figli. Si sapeva di Auma: molto vicina al fratello americano, nei mesi duri delle primarie democratiche gli aveva dato una mano in campagna elettorale. Si sapeva di Abongo, anche noto come Roy, anche noto come Malik: ogni tanto, dal Lago Vittoria, diceva la sua a riviste e giornali. Si sapeva dell’esistenza di tre altri Obama, uno in Cina, due a Londra: interpellati, avevano scelto di non parlare. Si sapeva anche che uno, David, era morto da giovane in un incidente di moto. All’appello mancava dunque soltanto lui: George Hussein Onyango Obama. «Vivo come un recluso, nessuno sa che esisto», racconta. Se qualcuno gli chiede del suo cognome, e accade spesso, si schermisce: «Rispondo che non è un mio parente. Mi vergogno». Ha 26 anni, gli occhi sempre amari, e poco di cui vantarsi. Si è da poco iscritto al primo anno di un istituto tecnico commerciale. Ha per dieci anni vissuto per strada. Che effetto le fa vedere suo fratello alla televisione? Si agita mentre risponde: «Obama, Obama, Obama, sempre Obama! Ma non dovrebbero occuparsi anche di McCain?». Con il fratello, si sono visti un paio di volte. Della prima, conserva un vago ricordo, aveva solo cinque anni. Di quell’incontro, esiste una traccia: un paragrafo, nell’epilogo dell’autobiografia di Barack Obama, I sogni di mio padre, in cui lo descrive come «un bel bambino dalla testa rotonda e dallo sguardo circospetto». La seconda volta, fu due anni fa. Il senatore arrivò assieme alla famiglia: il Kenya era una tappa di un giro pubblicitario in tutta l’Africa. Con lui viaggiavano, oltre alla moglie, Michelle, anche le figlie, Malia e Sasha. Le portò a Kogelo, a conoscere la nonna Sarah, davanti alle telecamere. Si fermarono per 45 minuti. « stato un incontro breve. Ci siamo parlati. stato curioso. Come incontrare un estraneo», dice George Hussein. Obama Barack ha rivisto il padre una volta sola, a dieci anni. Trascorsero assieme, a Honolulu, un disastroso Natale. Poi più niente, o quasi: notizie sporadiche, i racconti di sua madre e un profondo dolore. «Almeno Barack l’ha conosciuto. Voglio conoscerlo anch’io, voglio conoscere mio padre», dice George Hussein, piano. Jael, sua madre, si è da tempo risposata, ha avuto altri figli e vive lontano. Lui è solo. «Ho dovuto imparare a sopravvivere, a prendermi quello che mi serve». Nairobi non è un luogo ameno, men che meno lo è il ghetto. A Huruma, lo scorso gennaio, negli scontri post elettorali, almeno sei persone sono morte sotto colpi di machete. «La polizia qui non ti arresta, ti spara direttamente. Due miei amici li ho visti morire ammazzati». Come si è procurato tutte quelle piccole cicatrici? «Facendo a botte», dice. «Sono bravo a fare a botte».