Valerio Pellizzari, La Stampa 19/8/2008, pagina 13, 19 agosto 2008
La storia del Pakistan è satura di militari arrivati al vertice del potere, in modo più o meno turbolento, tutti però invocando sempre il bene supremo del paese
La storia del Pakistan è satura di militari arrivati al vertice del potere, in modo più o meno turbolento, tutti però invocando sempre il bene supremo del paese. Adesso il generale-presidente Musharraf lascia il suo incarico in anticipo, senza minacce, con passo felpato e parole morbide, invocando anche lui l’interesse supremo del paese come giustificazione del suo gesto. Ha aggiunto però una cornice emotiva, popolare, al rituale delle dimissioni raccontando che si è consultato con sua madre, sua moglie e i suoi figli prima di decidere. Dopo nove anni lascia un paese che ha gli stessi problemi di sempre. E inoltre la guerra al terrorismo, nella quale si era prontamente schierato dopo l’11 settembre a fianco degli occidentali, non ha prodotto risultati significativi nelle zone tribali e lungo il confine con l’Afghanistan. I taleban sono sempre più aggressivi e Osama Bin Laden è sempre invisibile. Probabilmente comincia proprio su quel fronte la sua decadenza politica, il progressivo abbandono degli alleati americani, che pure erano stati molto generosi sul piano economico ma anche esigenti sul piano militare. Condoleezza Rice, richiesta se il generale potrà ottenere asilo negli Stati Uniti, ha risposto sobriamente che la questione non è all’ordine del giorno. Già un segnale premonitore della imminente ritirata era arrivato nei giorni scorsi dalla Assemblea del Punjab, la provincia più ricca del Pakistan e quella che da sola ospita oltre metà popolazione dell’intero paese. I politici locali avevano approvato un documento che accusava Musharraf di avere violato la costituzione, di aver commesso gravi abusi amministrativi e irregolarità finanziarie. Tra i firmatari c’erano anche alcune decine di rappresentanti del suo stesso partito. E l’Assemblea nazionale a Islamabad si preparava a chiedere, per la prima volta nei 61 anni di storia del paese, le dimissioni del presidente. Lo scorso autunno Musharraf si era fatto rieleggere in una votazione dove i partiti di opposizione si erano astenuti. Contemporaneamente conservava la divisa e il ruolo di capo delle forze armate. L’altalena sulla quale era salito, e che piace ai militari pachistani, oscillava ancora una volta tra stato d’emergenza, leggi manipolate per l’occasione, e ricatti agli alleati stranieri. Alcuni analisti americani, pur consapevoli che quello era l’unico paese islamico con la bomba atomica e che il suo presidente era un alleato chiave in quella regione, scrissero che l’elezione di quei giorni era una «perversione» della democrazia. Il generale rispondeva a suo modo, dicendo che gli stranieri hanno «una ossessione non realistica della democrazia, dei diritti umani e delle libertà civili». Prometteva agli elettori di applicare quei principi anche nel suo paese, tenendo conto però delle tradizioni e delle diverse necessità locali. Prima ancora che Musharraf cominciasse a destreggiarsi con questi argomenti politici era emerso sulla scena pachistana un personaggio decisivo per la decadenza del generale. Quindici mesi fa il presidente della Corte suprema, Iftikhar Chaudhry, si oppose apertamente alle piroette legislative del generale, senza preoccuparsi troppo per la sua carriera. Dietro a lui cominciarono a muoversi gli avvocati, con i loro abiti scuri, in camicia e cravatta, accolti dai manganelli dei poliziotti. In un paese condannato a una contrapposizione sempre uguale, tra militari con le divise ben stirate, e integralisti islamici barbuti, con camici lunghi fino ai piedi, entrava in scena una nuova forza che trovava un seguito nelle classi medie. La retorica dell’esercito impegnato sui confini con l’Afghanistan e nel Kashmir mostrava i suoi limiti. Adesso il generale dice che ha lasciato l’incarico dopo avere ascoltato le parole di sua madre e di sua moglie. Ma anche il suo consigliere per la sicurezza nazionale gli aveva suggerito di mettersi da parte rapidamente, e nel modo meno vistoso e rumoroso. Lo rincorre tra l’altro l’accusa di avere dissipato ogni anno una somma di settecento milioni di dollari, prelevati dai fondi destinati a combattere il terrorismo. Ma la cronaca pachistana naviga da sempre tra scandali di licenze vendute, di tangenti incassate, di forniture statali scomparse strada facendo. Tra gli accusatori di oggi c’è Nawaz Sharif, deposto proprio con un golpe bianco da Musharraf. C’è anche il marito di Benazir Bhutto, a capo del partito fondato da sua moglie, perseguitato con accanimento proprio per corruzione dal generale, e soprannominato «Mister dieci per cento». Come hanno già stimato gli avvocati seguaci del giudice Chaudhry la partenza del presidente risolve solo il quaranta per cento dei problemi. Valerio Pellizzari