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 2008  agosto 19 Martedì calendario

ARTICOLI DEL 19 AGOSTO 2008 RIGUARDANTI LE DIMISSIONI DI MUSHARRAF


LA STAMPA
GIANLUCA URSINI
Pervez Musharraf ha rassegnato le dimissioni da presidente del Pakistan ieri mattina alle 9, ora italiana, con un discorso tv alla Nazione. Giusto prima che la coalizione di Governo guidata dai suoi acerrimi nemici Nawaz Sharif (cacciato in un golpe del ”99 dal dimissionario) e Ali Zardari (vedovo di Benazir Bhutto sul cui attentato mortale del 27 dicembre pesano forti sospetti in capo ai servizi, l’Isi) aprisse in Parlamento una procedura d’«impeachment» nei suoi confronti.
«Potrei difendermi su ogni singolo capo d’accusa, ma mi dimetto per il bene della democrazia in Pakistan», ha detto l’ex capo di Stato, lasciando dubbi sul suo immediato futuro. A Islamabad nei giorni scorsi si commentava soltanto la sua nuova, principesca, dimora, fatta costruire dal generale in 4 anni, forse presagendo la fine, ma i media pachistani - che paradossalmente in questi anni hanno goduto grazie al dittatore di molta più libertà - insistono su di un possibile esilio dorato, forse sul Golfo Persico, come era stato per i suoi predecessori Sharif e Bhutto.
Si conclude così un decennio di dittatura, iniziato il 12 ottobre 1999 con un golpe incruento, quando Sharif aveva destituito Musharraf da capo dell’Esercito, dopo avergli conferito quella carica l’anno prima. Per tutta risposta il generale lo aveva fatto arrestare e s’era proclamato premier; in capo a 6 mesi diventava capo assoluto dell’unica nazione islamica dotata di bomba atomica. Ora il capolinea, con dimissioni attese da due settimane. Per l’esattezza dal 7 agosto in cui i Popolari e la Lega Musulmana, forti del 70% dei voti conquistati alle elezioni del 18 gennaio, sulla scorta dell’emozione per l’assassinio di Benazir, annunciavano di voler processare l’alleato più caro a Washington, che aveva dichiarato lotta ai talebani nel Nord pachistano.
Ma il presidente s’era inimicato tutti negli ultimi due anni, dagli estremisti islamici ai giudici ai partiti politici. Il presidente della Corte Costituzionale, Iftikar Choudry, gli aveva obiettato nel 2007 che non poteva alternare la divisa militare e la grisaglia presidenziale. La sua defenestrazione in marzo aveva provocato il sollevamento generalizzato degli avvocati in tutto il Paese. L’attacco alla Moschea Rossa di Islamabad e ai fedeli che volevano imporre la legge islamica causarono più di 100 morti il 12 luglio 2007. Da allora la piazza estremista odia Musharraf, e i talebani pashtun che vivono lungo il confine afgano danno battaglia a Islamabad: 218 morti nell’ultima settimana, 2000 da inizio 2008 e 3.200 nel 2007 per l’agenzia «PeaceReporter».
Ieri tutto il Pakistan festeggiava le dimissioni: anche Bilawal, figlio di Benazir Bhutto rientrato il giorno prima a onorare la tomba della prima presidentessa donna del mondo musulmano. «La nostra migliore vendetta al martirio di mia madre sarà la democrazia», ha detto. La leader dei Popolari era rientrata in ottobre dopo un accordo con Musharraf: a te il governo, a me la presidenza. Ma il suo assassinio aveva fatto capire come l’Isi, i servizi che hanno inventato i talebani, sfuggissero al controllo del generale.
Da Washington sono arrivati commenti freddi: l’ex alleato era già scaricato, e anche l’esercito nei giorni scorsi aveva detto di «attenersi alla volontà del popolo». Parole del comandante in capo Ashfaq Kyani, nominato dallo stesso Musharraf, del quale era un pupillo. Chiunque governi adesso, avrà gioco difficile a tenere a bada esercito, servizi segreti filotalebani e gli Usa dove si profila la vittoria di Barack Obama, lo stesso che promise alle primarie: «Se verrò eletto scaccerò i talebani dal Pakistan, a costo d’intervenire direttamente con le nostre truppe».

LA STAMPA 19/8/2008
VALERIO PELLIZZARI
La storia del Pakistan è satura di militari arrivati al vertice del potere, in modo più o meno turbolento, tutti però invocando sempre il bene supremo del paese. Adesso il generale-presidente Musharraf lascia il suo incarico in anticipo, senza minacce, con passo felpato e parole morbide, invocando anche lui l’interesse supremo del paese come giustificazione del suo gesto. Ha aggiunto però una cornice emotiva, popolare, al rituale delle dimissioni raccontando che si è consultato con sua madre, sua moglie e i suoi figli prima di decidere. Dopo nove anni lascia un paese che ha gli stessi problemi di sempre. E inoltre la guerra al terrorismo, nella quale si era prontamente schierato dopo l’11 settembre a fianco degli occidentali, non ha prodotto risultati significativi nelle zone tribali e lungo il confine con l’Afghanistan. I taleban sono sempre più aggressivi e Osama Bin Laden è sempre invisibile. Probabilmente comincia proprio su quel fronte la sua decadenza politica, il progressivo abbandono degli alleati americani, che pure erano stati molto generosi sul piano economico ma anche esigenti sul piano militare. Condoleezza Rice, richiesta se il generale potrà ottenere asilo negli Stati Uniti, ha risposto sobriamente che la questione non è all’ordine del giorno.
Già un segnale premonitore della imminente ritirata era arrivato nei giorni scorsi dalla Assemblea del Punjab, la provincia più ricca del Pakistan e quella che da sola ospita oltre metà popolazione dell’intero paese. I politici locali avevano approvato un documento che accusava Musharraf di avere violato la costituzione, di aver commesso gravi abusi amministrativi e irregolarità finanziarie. Tra i firmatari c’erano anche alcune decine di rappresentanti del suo stesso partito. E l’Assemblea nazionale a Islamabad si preparava a chiedere, per la prima volta nei 61 anni di storia del paese, le dimissioni del presidente.
Lo scorso autunno Musharraf si era fatto rieleggere in una votazione dove i partiti di opposizione si erano astenuti. Contemporaneamente conservava la divisa e il ruolo di capo delle forze armate. L’altalena sulla quale era salito, e che piace ai militari pachistani, oscillava ancora una volta tra stato d’emergenza, leggi manipolate per l’occasione, e ricatti agli alleati stranieri. Alcuni analisti americani, pur consapevoli che quello era l’unico paese islamico con la bomba atomica e che il suo presidente era un alleato chiave in quella regione, scrissero che l’elezione di quei giorni era una «perversione» della democrazia. Il generale rispondeva a suo modo, dicendo che gli stranieri hanno «una ossessione non realistica della democrazia, dei diritti umani e delle libertà civili». Prometteva agli elettori di applicare quei principi anche nel suo paese, tenendo conto però delle tradizioni e delle diverse necessità locali.
Prima ancora che Musharraf cominciasse a destreggiarsi con questi argomenti politici era emerso sulla scena pachistana un personaggio decisivo per la decadenza del generale. Quindici mesi fa il presidente della Corte suprema, Iftikhar Chaudhry, si oppose apertamente alle piroette legislative del generale, senza preoccuparsi troppo per la sua carriera. Dietro a lui cominciarono a muoversi gli avvocati, con i loro abiti scuri, in camicia e cravatta, accolti dai manganelli dei poliziotti. In un paese condannato a una contrapposizione sempre uguale, tra militari con le divise ben stirate, e integralisti islamici barbuti, con camici lunghi fino ai piedi, entrava in scena una nuova forza che trovava un seguito nelle classi medie. La retorica dell’esercito impegnato sui confini con l’Afghanistan e nel Kashmir mostrava i suoi limiti.
Adesso il generale dice che ha lasciato l’incarico dopo avere ascoltato le parole di sua madre e di sua moglie. Ma anche il suo consigliere per la sicurezza nazionale gli aveva suggerito di mettersi da parte rapidamente, e nel modo meno vistoso e rumoroso. Lo rincorre tra l’altro l’accusa di avere dissipato ogni anno una somma di settecento milioni di dollari, prelevati dai fondi destinati a combattere il terrorismo. Ma la cronaca pachistana naviga da sempre tra scandali di licenze vendute, di tangenti incassate, di forniture statali scomparse strada facendo. Tra gli accusatori di oggi c’è Nawaz Sharif, deposto proprio con un golpe bianco da Musharraf. C’è anche il marito di Benazir Bhutto, a capo del partito fondato da sua moglie, perseguitato con accanimento proprio per corruzione dal generale, e soprannominato «Mister dieci per cento». Come hanno già stimato gli avvocati seguaci del giudice Chaudhry la partenza del presidente risolve solo il quaranta per cento dei problemi.

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