Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 19/8/2008, 19 agosto 2008
L’espressione «tempesta perfetta » viene tirata in ballo una volta di troppo, per descrivere la crisi finanziaria dell’anno passato
L’espressione «tempesta perfetta » viene tirata in ballo una volta di troppo, per descrivere la crisi finanziaria dell’anno passato. Eppure, la vera tempesta perfetta potrebbe essere ancora di là da venire. Come gli estimatori dell’omonimo film con George Clooney ricorderanno, la tempesta perfetta era stata originariamente provocata dall’impatto tra un uragano al largo della costa atlantica, un’area di bassa pressione a Sud della Nuova Scozia, e un fronte freddo in rapida discesa dal Canada. Dodici mesi dopo l’inizio di quella che continuiamo a definire una «stretta creditizia », siamo forse in procinto di assistere a una coincidenza altrettanto catastrofica, con l’uragano della crisi bancaria Usa che s’avvia lentamente verso lo scontro dapprima con il picco dei prezzi delle materie prime, e poi con una frenata dell’economia globale? Fino a quest’oggi, la crisi ha investito principalmente l’America, nonostante qualche danno collaterale (letteralmente!) nei bilanci di numerose banche europee. Tutto ha avuto origine con la bolla immobiliare negli Usa, gonfiata dalla politica del denaro facile e da standard creditizi sin troppo blandi. L’americano medio ha smesso di accumulare risparmi, appuntando le speranze di un futuro economicamente sereno sull’indebitamento a carattere speculativo nel mercato immobiliare. Nel giro di appena un decennio, il tasso di indebitamento delle famiglie è balzato dal 90 al 133% del reddito individuale disponibile. Durante il picco dell’agosto 2004, il tasso d’inflazione dei beni immobiliari superava il 20% su base annua. Con l’inevitabile scoppio della bolla, tuttavia, si è assistito a un ribaltamento dell’ intero meccanismo. Oggi, i prezzi delle case stanno crollando a un tasso annuo del 15%. E se il ruolo di catalizzatore della crisi spetta all’insolvenza dei mutuatari subprime, l’inarrestabile caduta dei prezzi fa sì che anche i proprietari meno «marginali » di immobili comincino a sentire il fiato corto. Stando a una recente proiezione di Credit Suisse, quando la crisi si sarà definitivamente smorzata, ben 6,5 milioni di mutui risulteranno caduti in pignoramento: più di un decimo di tutti i prestiti ipotecari erogati in America. Un crac immobiliare di questa portata non si vedeva dai tempi della Grande Depressione. L’unica differenza è che le autorità fiscali e monetarie hanno fatto tutto quanto in loro potere per scongiurare il ripetersi di quella che Milton Friedman e Anna Schwartz bollarono come la «grande contrazione» degli anni 1929-33. Il crollo del prezzo delle azioni, all’epoca, aveva portato al fallimento di migliaia di banche, ma la Federal Reserve non fece praticamente nulla per mitigare (e molto s’adoperò invece per accentuare) la conseguente implosione monetaria. Sotto la guida di Ben Bernanke, con un occhio sempre puntato verso il passato, la Fed ha agito in direzione esattamente opposta, varando tagli dei tassi d’interesse e, ancor più importante, destinando liquidità alle banche attraverso la finestra di sconto e nuove aste di rifinanziamento. Se tutto ciò ha finora consentito di scongiurare una crisi generalizzata del settore bancario, sarebbe bene non affrettarsi a cantar vittoria. Le tipologie più diffuse di titoli garantiti da prestiti ipotecari (Mbs) non hanno segnato una ripresa significativa rispetto all’inizio della crisi, mentre il mercato delle obbligazioni garantite da titoli «collaterali» (Cdo) è al lumicino. Nonostante le svalutazioni contabili per oltre 400 miliardi di dollari e iniezioni di capitale per circa 300, molti istituti bancari appaiono tuttora in fragili condizioni. I titoli azionari di almeno 40 banche americane hanno perso il 70%, o addirittura più, del proprio valore. Come ormai sappiamo, il Tesoro Usa interverrà per evitare il collasso di istituti finanziari ritenuti troppo grossi (o importanti) per chiudere i battenti. Moltissime banche di second’ordine, tuttavia, sembrano destinate a scivolare nell’ oblio. Definiamola pure una crisi bancaria parzialmente contenuta, allora. Ma il suo impatto sul resto dell’economia sarà in ogni caso pesante. Prima del crunch, l’estensione del credito negli Stati Uniti registrava una crescita del 4% all’anno; oggi, il dato segna -7%. sempre più evidente che l’economia Usa sia sull’orlo della recessione. Le società in bancarotta aumentano, le retribuzioni calano e gli utili aziendali precipitano. Ora, il nodo cruciale è se quest’uragano d’Oltreoceano sia in procinto o meno di scontrarsi con altre due perturbazioni macroeconomiche. Fino a questo momento, l’impatto globale della crisi è stato contenuto. Anzi, è soprattutto in virtù della forte crescita globale che la recessione americana non si è manifestata prima. Con il dollaro debole, l’export americano in tutto il mondo ha conosciuto una rapida impennata. Secondo Morgan Stanley, le esportazioni nette hanno inciso per circa 30 punti base sulla crescita della produzione Usa dell’1,8% registrata lo scorso anno. Ma guardiamo anche al rovescio della medaglia, ovvero al picco del prezzo delle materie prime, dovuto all’effetto congiunto della forte domanda asiatica e del deprezzamento del dollaro. Per un certo periodo, la concomitanza tra rallentamento dell’economia Usa e vertiginosa impennata dei prezzi del petrolio ha richiamato alla mente le tristi vicende della stagflazione degli anni Settanta. Oggi, tuttavia, un nuovo e più gelido fronte sta attraversando il paesaggio macroeconomico: la prospettiva di una frenata dell’economia globale. pur vero che le proiezioni non suonano troppo allarmanti. Una contrazione della crescita globale dal 4,1% dell’anno in corso al 3,6 in quello venturo, potrebbe addirittura esser giudicata necessaria, al fine di allentare le pressioni inflazionistiche. Le voci più ottimistiche, come quella di Jim O’Neill, economista della Goldman Sachs, celebrano lo «sganciamento» della Cina dagli Stati Uniti, facendo notare come la crescita cinese sia quasi interamente trainata dalla domanda interna, e non dall’ export. Vi sono almeno quattro ragioni, tuttavia, per contenere l’euforia. Primo, è più che evidente che l’Europa non si sia «sganciata » dall’economia americana. Anzi, in ragione anche del rafforzamento dell’euro, l’eurozona registra oggi una crescita più lenta rispetto agli Usa (l’ultimo dato del Pil è stato addirittura negativo). E badate: l’economia dell’Ue resta superiore di almeno cinque volte a quella cinese. E sta anche molto più a cuore agli esportatori americani. Secondo, il picco delle materie prime ha alimentato pressioni inflazionistiche in parecchi mercati emergenti, le quali non si smorzeranno dall’oggi al domani. La Banca Mondiale ha individuato 33 Paesi in cui i prezzi dei beni alimentari alle stelle hanno già innescato disordini civili. Terzo, lo sganciamento non è un buon motivo per rallegrarsi se, a una più attenta analisi, esso fa rima con de-globalizzazione. La crescita che l’economia globale ha conosciuto dal 1980 a questa parte, si deve in larga misura all’abbassamento delle barriere agli scambi commerciali e dei controlli sui flussi di capitali. Purtroppo, la recente battuta d’arresto dei negoziati di Doha sul commercio internazionale ha lanciato l’inquietante segnale di un sempre più flebile impegno, da parte della comunità internazionale, sul fronte del libero scambio. A un anno di distanza, quella che in prima battuta appariva una crisi tutta americana si sta rapidamente trasformando in una crisi mondiale. C’è poco da meravigliarsi, se soltanto una manciata di mercati azionari globalizzati si trova in territorio positivo rispetto all’agosto scorso, mentre più della metà ha subito una flessione tra il 10 e il 40%. Il rallentamento dell’economia americana si farà sentire anche in numerosi mercati emergenti meno dipendenti dalle esportazioni rispetto alla Cina. E, allo stesso tempo, la frenata dell’economia globale è sul punto di rompere l’ultimo argine alla recessione in America. No, non stiamo assistendo a una Grande Depressione in versione aggiornata; la Fed e il Tesoro faranno da sentinella. Proprio come negli anni ’30, tuttavia, la fase acuta della crisi non è quella d’Oltreoceano. E non appena la crisi diventerà globale, allora sì che parlare di «stretta creditizia» servirà a ben poco. © Niall Ferguson, 2008 (traduzione di Enrico Del Sero)