Stefano Malatesta, la Repubblica 15/8/2008, pagina 36, 15 agosto 2008
la Repubblica, venerdì 15 agosto Quando i Polo - Marco, il padre Nicolò e lo zio Maffeo - sbarcarono al molo davanti San Marco dopo oltre ventiquattro anni d´assenza da Venezia, erano in pochi a ricordarsi di loro
la Repubblica, venerdì 15 agosto Quando i Polo - Marco, il padre Nicolò e lo zio Maffeo - sbarcarono al molo davanti San Marco dopo oltre ventiquattro anni d´assenza da Venezia, erano in pochi a ricordarsi di loro. Nessuno fece caso alle tre figure barcollanti come marinai di lungo corso, vestite con tuniche di seta, imbottite e sporchissime, ridotte quasi in stracci, che potevano apparire esotiche e attirare l´attenzione in qualsiasi altro porto, tranne che a Venezia, più orientale di Damasco, con San Marco che sembrava il padiglione di un gran visir. «Avevano un certo, incredibile sentore tartaro nell´aspetto e nell´accento» dirà poi un testimone dell´arrivo dei viaggiatori veneziani «e parlavano uno strano dialetto, come se conoscessero le parole, ma ne avessero dimenticato l´uso». Anche quando bussarono alla porta delle loro case, dove li aspettavano i parenti, ci furono momenti d´imbarazzo; un quarto di secolo può trasformare qualsiasi fisionomia. Finalmente il più grande dei fratelli ordinò che gli fossero portate delle vesti veneziane, rosse, lunghe fino ai piedi e bordate d´oro e ne indossò una, come per ristabilire la sua orgogliosa e inalterabile qualità di cittadino della Serenissima. Poi con un lungo coltello prese a scucire le tasche interne accuratamente nascoste sotto l´imbottitura e da quegli stracci rotolarono per terra diamanti, rubini, smeraldi, in tale quantità da lasciare stupefatti i presenti. Le prove per essere riconosciuti erano finite. Su questa versione del ritorno a Venezia dei Polo non tutti gli studiosi di viaggi medievali sono stati sempre d´accordo, come su quasi tutto quello che riguarda Marco, i suoi itinerari in Asia, i paesi che ha realmente visitato, e quel libro, Il Milione, che non scrisse direttamente, costellato di apparizioni soprannaturali e di prodigi in modo tale da costringere i parenti più stretti, accorsi al suo capezzale quando stava in punto di morte, a consigliarlo di eliminare tutti quei passi, di cui nessuno sentiva la necessità e che stavano rovinando la sua credibilità. E Marco rispose di non aver raccontato nemmeno la metà delle storie prodigiose alle quali era stato testimone. Ma qualche tempo fa, durante degli scavi dell´area dove una volta sorgeva la casa di Marco, a qualcuno degli archeologi è venuto in mente di sottoporre alla prova del radiocarbonio i grossi travi, utilizzati per dei lavori di ampliamento della vecchia e modesta casa, trasformata in una lussuosa magione. E si è scoperto che erano stati tagliati e messi in opera nello stesso periodo, quello immediatamente successivo al ritorno dei Polo. Segno abbastanza sicuro che i lavori di quella importanza erano stati pagati con guadagni extra e che la scena delle pietre preziose poteva essere autentica. Sappiamo molto poco dei contatti medievali tra il grande impero di Mezzo, la Cina e i paesi europei. Ma è sempre apparso probabile che i Polo non siano stati i primi mercanti europei ad essere sospinti dai loro traffici fino nell´Estremo Oriente, ma i primi mercanti a scriverne. Nello Yangtzu sono stati ritrovati piccoli cimiteri dove erano state sepolte famiglie di europei venute fin laggiù per commerciare. E nelle cronache medievali che si occupavano dell´Oriente, è stato rintracciato un certo Angelo da Savignone, genovese, incaricato dal Gran Khan di andare nel Ferghana e di comprare quei meravigliosi cavalli che correvano come il vento. Ma l´importanza del viaggio dei Polo non è mai stato in un primato che di per sé significava poco, ma nella conferma che il destino manifesto di Venezia stava non nelle immediate vicinanze della città lagunare o lungo le coste della Dalmazia, ma nell´Oriente, con quella ricchezza e quel fasto che questo magico nome evocava nelle fantasie degli europei. Ancora molto lontani da una cultura materiale infinitamente più vasta e sontuosa di quella di casa. Il colpo di genio dei veneziani, nati in isolotti fangosi, in fondo a quel cul de sac che è l´Adriatico, lontani da ogni possibile traffico di terra e di mare, è stato quello di dimenticare lo debolezza delle loro posizioni di partenza e di mirare il più alto possibile, al di là del Mediterraneo e fino al Pacifico, più di due secoli prima che questo oceano venisse identificato e battezzato. La pretenziosa e velleitaria missione principale del loro viaggio fino in Cina, quella di convertire al cristianesimo il Gran Khan dei tartari in modo da chiudere l´Islam ad est come ad ovest, era naufragata quasi subito. Nessun Gran Khan si è mai fatto cristiano, mentre alcuni eredi tardivi sono diventati musulmani. Ma quello che interessava veramente i veneziani e Marco Polo, sondare le possibilità mercantili nei paesi toccati dalla Via della Seta, aveva avuto straordinari riscontri, tutti debitamente annotati nel Milione, questo testo che è stato causa di molti equivoci perché non è mai stato un libro di viaggio con l´elenco delle cose da vedere e l´elenco dei ristoranti consigliati, ma un vademecum per il perfetto mercante in Asia. Una sobria, quasi fredda e fattuale guida su centinaia di merci e sui mercati dove si potevano trovare: l´argento dell´Armenia, le sete lavorate della Turchia, le perle di Bagdad, i tessuti d´oro di Tabriz, l´olio minerale georgiano adoperato per il riscaldamento e contro la scabbia, i rubini e i lapislazzuli dell´Asia centrale, cotone, lino e canapa di Kashgar, ferro e asbesto del Taklamakan, muschio dei Tanguti, ginger, cannella, cipero e zucchero del Bengala, pepe e chiodi di garofano di Java, noci di cocco indiane, indaco, sandalo e ambra grigia da Zanzibar, incenso e cavalli da Aden, i damaschi, i tappeti, i velluti, i broccati, i manoscritti miniati e in Cina le porcellane e la seta. Imbevuti di un pragmatismo mercantile che permetteva loro di superare i pregiudizi religiosi e gli idealismi politici i veneziani hanno spesso giocato su due ruoli, suscitando le ire di pontefici come Innocenzo III: quando erano in acque amiche si presentavano come i campioni della cristianità, facendo affari sotto il segno della croce. Ma nel Levante, dove i potentati economici costieri erano tutti musulmani, dimenticavano che il papa aveva scomunicato quei senza fede, cercando di dimostrare con i fatti di essere i migliori amici delle popolazioni locali. Era un atteggiamento che poteva essere accusato di duplicità, ma abbastanza inevitabile: come disse un diplomatico veneziano di quei tempi: « Siamo mercanti e non possiamo vivere senza di loro». Secolo dopo secolo quella che è stata chiamata la frontiera liquida di Venezia, fatta di avamposti navali arroccati su pochi palmi di terra e di rocce, strategicamente perfetti, a Corfù, a Creta, a Cipro, e di una flotta alternativamente di guerra e di commercio, ha continuato ad avanzare verso est, servendosi di trattati commerciali che andavano da Granada ancora in mano dei moreschi al Marocco degli Emiri, alla Turchia dei selgiudichi. Ma il referente di gran lunga più importante dei veneziani, l´alleato sicuro, fedele e ricco, è stato l´Egitto dei mammalucchi, una casta di guerrieri che aveva sconfitto alla fine del secolo precedente un´armata mongola: un avvenimento eccezionale, perché i mongoli erano ritenuti imbattibili. Il commercio con i mamelucchi avveniva nei due sensi; i veneziani vendevano oro argento, ottone, lane, pellicce, e sorprendentemente cappelli, in cambio di tutte le spezie che si trovavano negli innumerevoli mercati del Cairo, oltre alle perle, alle pietre preziose e ai damaschi. Quasi il cinquanta per cento di tutti gli investimenti veneziani d´oltremare prendeva la via dell´Egitto, da dove veniva ridistribuito in tutto il Medio Oriente e oltre. E questo spiega perché fossero stati istituiti consolati della Serenissima un po´ ovunque. Non solo il Cairo o Alessandria, ma Damasco, Aleppo e più tardi anche Istanbul, Salonicco e Bursa. In un dipinto veneziano si vede un´ambasceria che arriva a Damasco nel 1511, riconoscibile per la magnifica moschea Omayad sullo sfondo, con una coda interminabile di regali e omaggi, tra i quali spiccano numerose forme di formaggio parmigiano, di cui i potenti del posto andavano pazzi. Ma i passaggi multipli delle merci non rifermavano solo nel Medio Oriente. L´Egitto era solo una tappa intermedia di un giro, che dopo aver scavalcato altri fiumi e altre montagne arrivava fino al nord Europa, anche se in quantità ridotte e in Cina. La preminenza di Venezia, le ricchezze che aveva incamerato e che erano state reinvestite in marmi e palazzi, uno accanto all´altro, che davano un senso di unicità al luogo come se la città fosse nata dalle acque per magia, ha fatto dimenticare che nel Levante operavano altre città italiane Amalfi, Pisa Genova e anche Firenze. La contemporaneità di questi lucrosi traffici con la rinascenza artistica italiana, lanciata all´avanguardia di tutte le belle arti, ha spinto alcuni studiosi a scoprire eventuali, non causali connessioni. Secondo una vulgata molto accademica che tutti noi abbiamo appreso nelle scuole medie, la rinascenza dell´Italia sarebbe avvenuta quando gli umanisti, piegati a decifrare i testi della civiltà classica, avrebbero passato l´antica sapienza ai nuovi interpreti, che se ne erano serviti per aprire una nuova grandiosa epoca nella storia dell´umanità. Ma questa tesi, che per la verità non portava molte prove se non quelle allestite dalla retorica, sta andando in pezzi anno dopo anno. Dopo le invasioni barbariche, nella vecchia Europa non erano rimasti in piedi che poche mura annerite dal fumo, dove non ci si poteva appoggiare neppure per piangere. Era molto difficile che da questo deserto dei tartari si potessero ricavare tutte quelle informazioni necessarie per una nuova grandiosa età che doveva avere le caratteristiche del classico e del moderno. Era molto più ragionevole e probabile che la fonte del sapere fosse rimasta nel Medio Oriente, conservata come la cultura araba aveva conservato i testi greci arricchendola di nuove invenzioni come l´algebra, tramandata in particolare da alcune popolazioni come i siriani, gli ebrei, e gli armeni, pronti a dare tutto quello che sapevano in cambio di protezioni o di assicurazioni che anche loro avevano diritto a non essere perseguitati. Così sono passate in occidente, attraverso Venezia, la carta, la polvere da sparo, l´abaco, tutte le matematiche, la stampa a caratteri mobili, il bugnato, fino a ieri creduto un´invenzione dei toscani, mentre era recuperabile già nel settimo secolo a Bagdad. In un bel libro uscito di recente di Rosemond E. Mach From the bazar to piazza: Islamic trade and Italian art 1300-1600 è spiegato come gli italiani non solo comprassero, ma copiassero tutto quello che vedevano o che sembrava loro interessante e lo trasformassero secondo le loro convenienza e un estetica particolare. La cattedrale di San Miniato presso Pisa, come molte tra le prime chiese medievali cristiane costruite in Italia, è decorata con forme di terracotta importate dall´Africa, e il duomo di Pisa è ancora coronato da un immenso grifone islamico: il più grande pezzo di ferro fuso islamico che si conosca in Europa. E se uno va a fare una passeggiata nelle città d´arte della Toscana e dell´Umbria, si accorge rapidamente che negli affreschi di Duccio, di Giotto e di Simone Martini sono chiaramente visibili tessuti islamici. E il palazzo ducale di Venezia ricorda molto da vicino un edificio mamelucco al Cairo. E se è vero che Venezia è diventata famosa per le sue vetrerie che smerciava in tutto il mondo oggi sappiamo che aveva copiato la tecnica di soffiare dentro le paste di vetro da artigiani cairoti rovinati più tardi dalla concorrenza italiana. In Sicilia la Cappella Palatina capolavoro di quella che viene chiamata con notevole ipocrisia Arte Arabo Normanna (essendo araba al 99% e normanna all1%) è opera di artisti arrivati dai Cairuan, Tunisia. Le ottime relazioni tra Venezia e l´Islam durarono fino a quando l´impero ottomano non si allargò in maniera tale da diventare minacciosa. Le avanzate della armate ottomane verso Vienna nella seconda metà del 600 erano state anticipate dall´uso aggressivo di un potere navale nel Mediterraneo orientale, contro le colonie di Venezia: Corfù, Creta, Cipro. Il popolo minuto si accorse di questi cambiamenti epocali guardando le grandi tele dei pittori veneti che venivano appese nelle chiese lungo il Canal Grande. Per la prima volta le facce dei personaggi orientali fino a quel momento disegnate come amichevoli, rassicuranti e persino nobili, avevano preso l´aspetto barbuto e crudele di turchi inturbantati che stavano a osservare come in agguato, in attesa di spellare vivo un veneziano, come avevano già fatto con quel poveretto di Marcantonio Bragadin quando Famagosta era caduta. L´idillio di Venezia con il mondo islamico era terminato. Stefano Malatesta