Luca Piana, L’espresso 21/8/2008, 21 agosto 2008
Sette regioni pagano per tutte. L’espresso 21/8/2008 Raffaele Lombardo, viceré berlusconiano in Sicilia, c’è andato giù duro
Sette regioni pagano per tutte. L’espresso 21/8/2008 Raffaele Lombardo, viceré berlusconiano in Sicilia, c’è andato giù duro. All’inizio di agosto, celebrando i primi cento giorni da presidente della Regione, ha detto di non considerare l’unità d’Italia un vantaggio per la storia siciliana. Subito dopo, però, ha annunciato che tratterà con il ministro leghista Roberto Calderoli, artefice del federalismo fiscale prossimo venturo, il modo per salvaguardare il fiume di denaro pubblico che affluisce nell’isola, facendone la regione più assistita d’Italia. L’ambiguità di Lombardo, autonomista a parole, ma centralista quando si tratta di incassare, ha una spiegazione semplicissima. La questione siciliana è uno dei punti critici che il governo di Silvio Berlusconi dovrà affrontare per regalare agli alleati della Lega Nord e all’Italia intera il federalismo fiscale, una riforma che nel Meridione preoccupa i più. Il motivo lo mostra la figura di pagina 46. Nessun’altra regione ha un bilancio così negativo fra le spese sostenute complessivamente dalle amministrazioni pubbliche sul suo territorio e le entrate fiscali raccolte dai cittadini che lo abitano. Un saldo che in Sicilia è un baratro: oltre 13,2 miliardi di euro. IN SETTE PAGANO PER TUTTI I dati, elaborati dall’Ufficio studi dell’Associazione degli artigiani (Cgia) di Mestre, descrivono il punto da cui parte l’Italia per intraprendere la riforma federalista. Il fattore chiave è il residuo fiscale, la differenza fra quanto lo Stato incassa dai cittadini di ogni regione e quanto spende per loro. Dalla figura si vede che, su 19 regioni e due province autonome, solo sette hanno un residuo positivo: si va dai 38 miliardi della Lombardia ai 2 delle Marche, passando per Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Toscana e Lazio. Se si considerano i dati per abitante, nella classifica dei più tartassati, restano in vetta i lombardi, o almeno quelli che pagano le tasse: ogni anno elargiscono alla pubblica causa 4 mila euro a testa, seguiti dagli emiliani con 3.656. I più fortunati invece sono i valdostani: grazie alle prerogative dell’autonomia incamerano circa 4.191 euro l’uno. GI LE MANI DAL BOTTINO I numeri fotografano un’Italia dove nel tempo le differenze economiche sembrano farsi più profonde, invece di ridursi. E la spaccatura non lascia dubbi ai sostenitori del federalismo: "Solo chi spende i propri soldi, li può spendere bene", riassume Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre, secondo il quale "il federalismo è necessario per coniugare efficienza dell’amministrazione e responsabilità della politica". Una regola aurea che ha però, dice Bortolussi, un corollario: "Regioni come la Lombardia e il Veneto dovranno darsi da fare: quando avranno le mani libere, sarà essenziale investire in innovazione, creare lavoro qualificato, far crescere la loro economia per fare da traino a tutti". Allo stesso tempo i dati mostrano anche il motivo per cui un federalismo senza condizioni è politicamente impossibile. Stando a questi calcoli, infatti, circa 30 milioni di italiani vivono in rosso. Una regione come la Campania, se da un giorno all’altro dovesse cavarsela da sola, dovrebbe azzerare la sanità, chiudendo tutti gli ospedali. Ma non basterebbero per colmare la voragine nei conti di Sicilia e Calabria, che forse dovrebbero tagliare anche le scuole. Pure la Liguria, peraltro, si troverebbe costretta a pesanti sacrifici, visto che il suo residuo fiscale è negativo per 853 milioni. MODELLO LOMBARDO ADDIO per questo che, probabilmente, sono state abbandonate le ipotesi più spinte di federalismo. Dopo essere stata inserita nel programma elettorale del Popolo della libertà, è finita nel cassetto la proposta messa a punto dalla Regione Lombardia, che a inizio luglio veniva ancora difesa dal ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Se fosse diventato legge, il modello lombardo avrebbe dirottato alle regioni l’80 per cento dell’Iva pagata localmente e metà del gettito dell’Imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef). Secondo i calcoli degli economisti, il budget delle regioni sarebbe esploso da 87 a 206 miliardi. A fronte di questo mare di quattrini, però, i raffinati giuristi lombardi si erano dimenticati di indicare quali spese sarebbero divenute di loro competenza. Oggi, dunque, sul tavolo restano due ipotesi. La prima è stata firmata dal ministro Calderoli, la seconda dalla Conferenza delle regioni guidata dal presidente emiliano Vasco Errani. Entrambe, in attesa dei colloqui che partiranno a fine mese, evitano di indicare quante risorse passeranno concretamente dal controllo statale a quello delle regioni. Già oggi, tuttavia, è possibile identificare alcuni snodi cruciali. OBIETTIVO COLPO DI SPUGNA Il cardine del sistema Calderoli, che verrà presentato in Consiglio dei ministri il 12 settembre con la supervisione del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, è l’abbandono del costo storico dei servizi come criterio per determinare i budget. L’idea è questa: la spesa pubblica è incrostata di sprechi al punto da non servire come indicatore del giusto prezzo dei servizi forniti ai cittadini. In futuro, dunque, anche per materie garantite dalla Costituzione come scuola e sanità verranno stabiliti dei costi standard, finanziati trattenendo in ogni regione una parte delle tasse versate in loco. Chi spenderà meno, avrà le risorse per estendere l’offerta, magari aumentando le cure garantite. Chi sprecherà, avrà vita dura. Se per l’istruzione, inserita da Calderoli nel suo testo ma non dalle regioni, mancano del tutto dati regionali, una simulazione condotta da Anna Paschero, uno dei tecnici della Regione Piemonte che stanno lavorando sulla riforma, mostra invece quel che potrebbe accadere nella sanità. Il fabbisogno sanitario pro capite, infatti, cambia da regione a regione: si va dai 1.382 euro della Campania ai 1.657 della Liguria, dove pesa l’elevato numero di anziani. La media è di 1.491 euro per abitante, un livello sul quale potrebbero collocarsi i costi standard voluti dalla riforma. Tra le regioni a statuto ordinario anche Calabria, Puglia, Basilicata, Veneto e Lombardia stanno sotto la media e potrebbero beneficiare di maggiori risorse. Le altre tireranno la cinghia. SCUOLA MODELLO FEDERALE Il fatto che materie delicate come la sanità e l’istruzione possano cadere fra le responsabilità delle regioni non preoccupa gli esperti. "Oggi veniamo da una lunga storia di spesa gestita dal centro in modo ferreo, eppure ci sono differenze abissali da una città all’altra", dice Gilberto Muraro, docente all’Università di Padova e autore di numerosi scritti sul federalismo, secondo il quale "quel che serve è una maggiore responsabilizzazione". Allo stesso tempo, tuttavia, Muraro vede con favore il fatto che siano previste verifiche periodiche del nuovo sistema: "In questo modo eventuali errori non pregiudicheranno il futuro", spiega. CHI PAGA L’UGUAGLIANZA Uno dei problemi, però, è come consentire alle regioni più povere di far quadrare i conti, almeno all’inizio. L’idea di Calderoli è prendere le tre regioni migliori e calcolare che fetta di tasse devono trattenere per sostenere la loro spesa. Si calcola la media fra le tre. Chi riesce a spendere meno, versa il resto in un fondo (detto perequativo) che verrà ripartito fra chi, al contrario, spende di più. Per pagarsi la propria sanità, alla Lombardia basterebbe trattenere una fetta del gettito Irpef del suo territorio pari a un’aliquota del 4,4 per cento; in Calabria, dove i redditi dei cittadini sono più bassi, si arriverebbe al 16,3. Le tre regioni migliori - ipotizzate secondo le schema Calderoli - sarebbero dunque Lombardia, Emilia Romagna e Lazio. L’aliquota media fra le tre (il 5,3 per cento relativa all’Irpef) è però inferiore a quella che sia l’Emilia che il Lazio dovrebbero trattenere per sostenere interamente la loro spesa sanitaria. MEDIAZIONE EMILIANA Questi calcoli hanno un risultato paradossale: solo la Lombardia darebbe un contributo al fondo perequativo, pari a circa 1,2 miliardi. Tutte le altre Regioni, comprese quelle che generano sul loro territorio un gettito fiscale sufficiente a ripagare per intero le loro spese, andrebbero a debito con il fondo perequativo, rimpinguato dallo Stato per circa 11 miliardi l’anno, al quale dovrebbero chiedere denaro continuamente per pagare medici e infermieri. I problemi sono vari. Le regioni che hanno i conti in ordine non ci stanno a fare inutilmente brutta figura. Le altre temono, se le risorse venissero elargite direttamente da quelle più ricche, di dover dipendere dagli avversari politici, i quali potrebbero bloccare i finanziamenti al fondo. Per questo motivo la Conferenza delle regioni ha definito un altro sistema, che passa dalla triangolazione dello Stato, che risulterebbe il distributore delle risorse: "La nostra proposta è l’unica che possa tenere insieme Nord e Sud, regioni grandi e piccole", avverte Errani, che chiede un periodo di transizione di cinque anni, più lungo dei tre proposti da Calderoli "Oggi", spiega il presidente emiliano, "nessuno è in grado di dire quale sia il costo standard per moltissimi servizi: stabilire un percorso morbido è l’unico modo per arrivare a una soluzione credibile". IL RICATTO Non tutti, però, sono convinti che il meccanismo studiato da Calderoli possa reggere alle pressioni che arriveranno dai partiti. Dice Fabio Pammolli, presidente del Cerm, un centro indipendente di ricerca economica: "I principi della riforma sono indiscutibili. Dubito però che per molti servizi di base, che dovranno essere garantiti dalla Lombardia alla Puglia, sarà possibile definire un costo standard". Spiega Pammolli: "Man mano che si allarga il ventaglio di servizi offerti da una regione, diventa sempre più difficile stabilire un costo standard: qual è il costo ’giusto’ per un efficiente servizio di assistenza agli anziani a Milano rispetto a Campobasso?". Il rischio, spiega l’economista, è che la compilazione di un elenco infinito di prezzi e servizi apra la strada al ricatto da parte dei parlamentari delle regioni politicamente più influenti, per far lievitare progressivamente i costi standard, ammorbidire i vincoli di bilancio e tornare, di fatto, al rimborso generalizzato a pié di lista delle spese sostenute. Con un rischio ulteriore: che ogni regione d’ora in poi faccia da sé. E che tutte restino, irrimediabilmente, sprecone. n Quanto ci costa il valdostano Entrate e spese pubbliche suddivise per le regioni dove vengono realizzate. Dati pro capite in euro Entrate pubbliche - Spese pubbliche - Differenza* *(Tra parentesi i dati negativi) Piemonte 14.243 - 12.868 - 1.375 Valle d’Aosta 17.261 21.453 (4.191) Lombardia 17.097 13.097 4.000 Provincia di Trento 15.165 16.172 (1.007) Provincia di Bolzano 15.473 16.038 (565) Veneto 13.983 10.691 3.292 Friuli Venezia Giulia 15.366 15.942 (576) Liguria 13.581 14.110 (530) Emilia Romagna 16.138 12.483 3.656 Toscana 13.937 12.579 1.358 Umbria 12.672 13.274 (602) Marche 12.390 10.952 1.439 Lazio 15.841 15.134 707 Abruzzo 10.126 11.000 (875) Molise 9.060 11.175 (2.115) Campania 8.110 9.247 (1.137) Puglia 7.902 9.306 (1.403) Basilicata 8.375 10.686 (2.311) Calabria 7.956 10.554 (2.598) Sicilia 7.982 10.630 (2.648) Sardegna 10.604 12.022 (1.419) Fonte: Elaborazione Ufficio Studi CGIA Mestre su dati Conti Pubblici Territoriali (Ministero dello Sviluppo Economico)