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 2008  agosto 14 Giovedì calendario

IL BALLO DELLE STATUE IN UN PAESE SENZA PACE

la Repubblica, mercoledì 13 agosto

A dispetto di ogni qualsivoglia logica della Storia, la Primavera di Praga non inizia il 5 gennaio del 1968, quando Alexander Dubcek, il "marxista romantico", viene eletto Primo segretario del Partito Comunista Cecoslovacco, dando l´avvio a quello che fu chiamato il "processo di rinnovamento" (processo che, peraltro, la cultura ceca e slovacca aveva già intrapreso con l´inizio degli anni Sessanta). Se vogliamo una data, quella Primavera iniziò in realtà un 20 di agosto (così come il 20 agosto del 1968 si concluderà - su questo non ci sono dubbi - quando arriveranno i carri armati). Ma il nostro è il 20 agosto del 1962, quando il capo degli artificieri diede ai suoi uomini il segnale per far esplodere "a tappeto" (così scrive nel suo rapporto) il monumento al generalissimo Stalin che dominava Praga dal maggio del 1955. A causa delle dimensioni pantagrueliche dell´oggetto, l´operazione andò avanti per un paio di mesi, accompagnata da uno straordinario silenzio stampa. Ma non era certo la prima statua che veniva eliminata, nel Novecento, dallo scenario architettonico di Praga. Anzi, il nostro Stalin era proprio in ben affollata compagnia: statue tirate giù con le corde come stanche vele ormai da ammainare, o statue anatomizzate con la fiamma ossidrica o soltanto esiliate nel chiuso di un deposito, come per l´Uomo di marmo del regista polacco Andrzej Wajda. Insomma: l´altalenante e rapido susseguirsi dei diversi regimi politici (sommato a una tenace iconoclastia che si direbbe quasi di derivazione hussita) ha favorito in Boemia l´impersistenza della memoria storica. Ma vediamo (quasi) con ordine.
Chi ha letto Le avventure del bravo soldato Svejk di Jaroslav Hasek se la ricorderà quella scena: smascherato come simulatore dall´ufficiale medico Bautze, due soldati con le luccicanti baionette inastate stanno accompagnando in carcere il povero Svejk, che - affetto da reumatismi - arranca appoggiandosi alle grucce, perché la signora Müllerova, che doveva aspettarlo con la sedia a rotelle, visto l´andazzo ha preferito tagliare la corda. E i tre arrivano sulla Piazza di Mala Strana dove Svejk, rivolto alla folla, comincia a urlare a squarciagola: «A Belgrado! A Belgrado!». E, scrive Hasek: «dall´alto del suo monumento il maresciallo Radetzky guardava trasognato il bravo soldato Svejk allontanarsi col mazzolino di fiori delle reclute attaccato sul bavero della giacca, zoppicando su quelle sue vecchie stampelle, mentre un signore dall´aria seria spiegava alla gente tutt´attorno che stavano conducendo via un disertore». Ma dov´è finita la statua del maresciallo Radetzky, il comandante della campagna d´Italia, il vincitore di Custoza e Novara? Il suo monumento dominava la piazza fin dal novembre del 1858, dando anche il nome alla caffetteria che poi sarebbe divenuta la Malostranska kavarna. Secondo un modello ripreso dalla statuaria tedesca, la sua figura appiedata - che brandiva con la sinistra la bandiera imperiale - era eroicamente issata su uno scudo sorretto in spalla da otto soldati, a rappresentare le diverse armi dell´esercito di Francesco Giuseppe: lo sguardo puntato sul fiume e sulla Città Vecchia. Beh, il monumento, che ancora nel maggio del 1915, in un tripudio di stendardi giallo-neri, veniva scelto dai soldati austriaci come sfondo per foto ricordo di monito all´Italia che aveva appena dichiarato guerra agli Imperi Centrali, nel novembre del ´18 subisce prima l´affronto di finire tutto avvoltolato in un lenzuolo, come un assemblaggio di Christo, per poi venir spostato definitivamente, dal maggio dell´anno successivo, negli spazi chiusi del Lapidarium, il pensionato per statue in quello che fino a vent´anni fa era il Parco Julius Fucik.
Con grande pragmatismo si decide però di lasciare lì almeno il piedistallo, che magari può servire per qualcuno dei nuovi eroi della neonata Repubblica Cecoslovacca. Qualcuno propone di utilizzarlo per disporvi magari la statua del generale Stefanik, il padre della nazione slovacca, morto giusto in quei giorni in un incidente aereo, ma poi si desiste e si elimina anche il basamento. Bisognerà aspettare un racconto satirico del 1957, opera del prolifico Vaclav Lacina, per ritrovare il monumento nuovamente al suo posto. Il racconto, intitolato Praga divisa in due, descrive una Praga tagliata in due parti dal fiume e spartita - come la coeva Berlino - fra russi e occidentali, i quali nel settore Ovest della città, dove dominano capitalismo, prostituzione e gioco d´azzardo, hanno anche ripristinato il rimosso Radetzky. (C´è però nel racconto un irrisolto problema topografico cui non si fa cenno: nel settore occidentale è rimasta anche la collina della Letna con su il monumento a Stalin.) Nella Praga reale, ovviamente, tali reintegri di funzione non avverranno mai. In quello stesso maggio 1919 si decide anche il destino del monumento dedicato all´imperatore Francesco I Absburgo, quella sorta di cattedrale gotica miniaturizzata, tutta guglie e pinnacoli, che ancora s´incontra sul lungofiume fra il Teatro Nazionale e il Ponte Carlo. Che si incontra a tutt´oggi, senza però la statua equestre dell´antico sovrano con scettro e corona che dal 1850 dimorava nella nicchia centrale. Il monumento era infatti già stato fatto segno di intemperanze nazionalistiche nel 1893 quando, durante la notte, dopo che la sera precedente alcuni dimostranti avevano cercato di scaraventare giù dal Ponte Carlo la statua di Giovanni Nepomuceno (il santo che maggiormente esprimeva la vicinanza tra Corona absburgica e Controriforma cattolica), qualcuno aveva lasciato penzolare al collo dell´ex sovrano un irrispettoso cappio da esecuzione capitale. Subito dopo la dichiarazione d´indipendenza cecoslovacca si decise pertanto che sarebbe stato forse più proficuo asportare il provocatorio cavaliere, lasciando però in tal modo il monumento privo per sempre del suo protagonista: una ridondante cornice senza più il suo quadro.
Brutti tempi per Absburgo e mondo cattolico, da gran parte della popolazione percepiti come complici dei tre secoli di occupazione straniera del paese. Anche le forze della natura avevano fatto la loro parte nella disputa, e durante la piena del settembre 1890 la Vltava si era trascinata via due pilastri del Ponte Carlo con annesse statue di Ignazio di Loyola, il fondatore dell´Ordine dei Gesuiti, e Francesco Saverio, uno dei primi confratelli. Dopo un difficoltoso recupero delle opere, con l´inizio degli anni Dieci - data la montante tensione anticlericale - si deciderà più sicuro il trasferimento nel Lapidarium dell´imponente gruppo statuario barocco di Ignazio di Loyola, opera dell´insigne Ferdinand Maximilian Brokof, con il santo in piedi in bilico sulla sfera del mondo.
E gli era anche andata bene. Il 3 novembre 1918, pochi giorni dopo l´indipendenza, lo scontro diventa cruento. A farne le spese è la colonna mariana innalzata, nel 1650, nel bel mezzo di Piazza della Città Vecchia, davanti alla chiesa di Tyn, in ricordo della conclusione della sanguinosa Guerra dei Trent´anni: una stele di una quindicina di metri con su in cima una statua della Madonna di due metri, gruppi di angeli a guardia della base e, tutt´intorno, una balaustrata in pietra arenaria. Oltretutto, a partire dal 1915 essa aveva dovuto anche convivere col neoedificato monumento all´eretico Jan Hus sulla stessa piazza, ennesima provocazione in quegli anni di crescente nazionalismo anticattolico. In un gioco tra il casuale e il premeditato, in quella domenica di novembre, alle sei del pomeriggio, ai piedi della colonna si incontrano due istanze diverse e (prese insieme) devastanti: da un lato, una folta manifestazione di ritorno dalla Montagna Bianca, a ricordare la sconfitta per mano absburgica di tre secoli prima; dall´altro, la mente bislacca e anarcoide di Franta Sauer, fabbro, contrabbandiere, attore, scrittore dilettante, prima socialista nazionale ma poi bohémien a tempo pieno, alla stregua del compagno di bevute Hasek, di cui - su richiesta dell´amico - s´improvviserà (perché no?) editore delle prime due parti dello Svejk (1921 e 1922), dopo un´ingegnosa quanto truffaldina raccolta capitali.
Con un escamotage (il termine tecnico sarebbe in realtà «millantato credito», ma l´epoca era ingenua) l´ingegnoso Sauer riesce a ottenere dai vigili del fuoco del quartiere operaio di Zizkov l´armamentario necessario (scala, rampini e cordame) e in poco tempo la colonna è abbattuta con grande concorso di popolo, tra canti e sventolii di bandiere rosse, come fa mettere a verbale un agghiacciato testimone oculare che si precipita al Comitato Nazionale a chiedere inutilmente l´intervento della forza pubblica, peraltro contenta dei danni «limitati» di tali incontrollabili manifestazioni di massa. Alle polemiche, soprattutto di parte cattolica, Sauer risponderà a suo modo con un feroce pamphlet intitolato La nostra teppaglia, i gesuiti e i diplomatici (1923, ma già parzialmente anticipato l´anno prima), dove scrive tra l´altro: «Il fatto che la rivoluzione ceca non abbia preteso altro che l´abbattimento di una statua dove andavano a pregare le vecchiette, è solo testimonianza della maturità culturale degli operai socialisti cechi e della popolazione ceca progressista». Un ragionamento che non fa una piega, ma quella colonna c´è ancora oggi, a Praga, chi non gliela perdona.
GIUSEPPE DIERNA

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la Repubblica, giovedì 14 agosto
Dopo la vera e propria orgia iconoclasta che aveva accompagnato, a Praga, la raggiunta indipendenza nazionale, con gli anni Trenta non accenna certo a interrompersi quella che si può a ragione definire un´assestata tradizione novecentesca di ripensamenti sul passato attraverso le statue. E se con la Prima Repubblica peggiora vistosamente la fattura dei monumenti che vanno a mutare il panorama della città, allo stesso tempo diminuisce però anche il loro periodo di permanenza, e ciò grazie soprattutto (tra il 1939 e il ´45) al drastico contributo degli organi tedeschi d´occupazione. Intanto, in un feroce articolo del ´29, La peste dei monumenti, il raffinato critico letterario Frantisek X. Salda si era violentemente scagliato contro questi nuovi simulacri che «ricordano pericolosamente prodotti dell´arte pasticciera portati a dimensioni pantagrueliche» o - peggio ancora - sembrano «cliché giornalistici branditi con forza, una sorta di plastici articoli di fondo di Narodni politika o dei Narodni listy». Aveva certo in mente i due ultimi arrivi: Wilson e Denis.
E chi poteva dargli torto?
L´infelice statua del presidente statunitense Woodrow Wilson, il primo di quegli «orribili esempi di devozione» di cui si lamenterà sessant´anni più tardi (ma riferendosi al monumento a Stalin) il critico Vaclav Cerny, venne eretta nel luglio 1928 - su impulso e finanziamento dei cecoslovacchi d´America - nei giardini di fronte all´attuale Stazione Centrale, che all´epoca aveva da poco abbandonato il nome dell´imperatore Francesco Giuseppe proprio per fregiarsi di quello del presidente americano, acclamato tra i liberatori della neonata repubblica. La figura in bronzo, opera di un inesperto scultore ceco-americano offerta alla madrepatria insieme ai finanziamenti, mostra un Wilson in piedi, rigido, le braccia allungate e leggermente discoste da corpo, i palmi delle mani rivolti in basso, come un doppio palleggiatore di basket. All´entrata in guerra degli U.S.A., però, gli occupanti tedeschi non aspettarono neanche una settimana (c´era urgenza di metallo per gli armamenti) e la notte del 12 dicembre 1941 la statua venne tolta di mezzo, lasciando dietro di sé solo una lapide (germanica) a imperitura memoria. Dal ´47 un monumento dei vincitori (un pilastro tronco con su una lapide) ricorderà a sua volta il perduto monumento.
Non diversa la sorte della statua dedicata nel dicembre del ´28 allo storico francese Ernest Denis, l´amico del presidente Tomas G. Masaryk, l´uomo che tanto si era battuto in Francia per il trionfo dell´idea di una repubblica cecoslovacca. L´illustre studioso viene accomodato su una poltroncina forse un po´ troppo inclinata, posata su un piedistallo non molto alto, sulla Piazza di Mala Strana, lì dove lo slargo s´incanala verso la Nerudova (per capirci: un po´ più indietro di dove stava il maresciallo Radetzky). Forse per questo gli organi tedeschi a ciò preposti si accorgono di lui anche prima del presidente americano, e l´ospite sparisce in tutto silenzio già nella notte del 20 aprile 1940.
In un gustoso romanzo di Jiri Weil, Sul tetto c´è Mendelssohn (1960), ambientato nella Praga del Protettorato e tutto tramato di statue il fotografo Oto Pokorny ama girare per la città a fotografare «le piazze dove si ergeva qualche monumento non ancora spostato». Certo ne aveva parecchio di lavoro... Nel romanzo, un altro personaggio - l´operaio Schlesinger - viene invece costretto dalle autorità tedesche a partecipare al furto delle spoglie del Milite ignoto conservate nel Municipio di Piazza della Città Vecchia. Come spesso in Weil, il fatto è autentico: trasferiti nella sede della Gestapo, palazzo Petschek, finita la guerra quei resti non si riuscirà davvero più a ritrovarli. Avverrà allora qualcosa di incredibile. Davanti al Municipio semidistrutto dai tedeschi in fuga, lì dove ancora una trentina di anni prima cadeva l´ombra (protettiva o infamante: questione di punti di vista) della colonna mariana, viene ora eretto un improvvisato monumento al Milite ignoto: un catafalco con sopra una bara senza alcun corpo, un milite - ignoto e assente - davanti al quale tra il ´45 e il ´48 si svolgeranno ugualmente importanti cerimonie ufficiali.
Fantasma per fantasma: di lì a poco, là dietro l´angolo, sullo slargo sotto alle finestrelle dell´orologio astronomico da cui sbucano i dodici apostoli, viene collocato - ma solo in prova - il modello di un gruppo statuario all´epoca di grande successo: Fratellanza di Karel Pokorny, l´abbraccio alquanto focoso di un partigiano ceco con un soldato dell´Armata rossa. Il Comune vuole sentire il parere dei cittadini, e alla fine si deciderà di spostarlo nei giardini davanti alla Stazione Centrale (tanto non c´è più neanche Wilson...).
Intanto la città si è arricchita di un classico del secondo dopoguerra: un autentico carro armato (sovietico) sopra un piedistallo, monumento elevato ai carristi russi che hanno liberato Praga nel maggio del ´45. Sarà collocato, due mesi dopo, nel quartiere di Smichov, di fronte ai giardini Kinsky. Il poeta Nezval, dimentico ormai del proprio prestigioso passato, ricorda l´ingombrante cimelio in una poesia del ´55: «Come una statua, come un sepolcro, come il monumento ad un tempo glorioso, / come un trono o come una corona svetta lì a Praga, a Smichov». Non sarà neanche il solo a trarne ispirazione. La foto del carro armato sul piedistallo diverrà anche, per un certo tempo, il soggetto preferito da appaiare al monumento a Stalin nelle guide di Praga dalla metà degli anni Cinquanta. E ancora nel luglio del ´68, nel pieno della Primavera di Praga, un divertito giornalista del coraggioso settimanale Reporter, innervosito (come gran parte della popolazione) dalla mancanza di notizie sugli spostamenti dei carri armati sovietici che stanno facendo le loro minacciose esercitazioni (segrete) in territorio cecoslovacco, pubblica - una accanto all´altra - una foto del carro armato di Smichov e una foto tutta bianca. Sotto, le due didascalie precisano: «Carro armato liberatore», e accanto: «Carro armato segreto». Oggi neanche il carro armato del ´45 sta più lì al suo posto. Nel ´91 era diventato per alcuni mesi la pietra dello scandalo nella politica ceca: prima venne pitturato oltraggiosamente in rosa, poi di nuovo in verde, quindi ancora una volta in rosa, fino a che non si decise di riporlo in un più acconcio museo militare.
Partendo da tale inarrestabile ecatombe di statue, a molti doveva essere sembrato davvero esagerato il vicepresidente del consiglio Vaclav Kopecky quando, il Primo maggio 1955, all´inaugurazione del mastodontico monumento a Stalin, a Praga, sulla collina della Letna, nel suo discorso ufficiale aveva coraggiosamente dichiarato: «questo monumento è destinato a durare nei secoli». Durerà sette anni e qualche mese.
Eppure ci si erano messi d´impegno, e già a partire dal ´49, in previsione del settantesimo compleanno del Generalissimo. Il concorso aveva prodotto essenzialmente soluzioni stereotipe e semplicistiche: uno Stalin a figura isolata, gelato nel gesto di muovere il passo, le braccia allargate come un Golem da film muto.
Vennero esposti, quei modelli, nel dicembre del ´49, in una sala della Casa di Rappresentanza: dev´essere stato davvero inquietante metter piede là dentro, scivolare in piano sequenza lungo quei quaranta e più Stalin in miniatura, braccia larghe e sguardo accattivante... Il vincitore, Otakar Svec, li aveva sbaragliati tutti i suoi ingenui concorrenti, proponendo un imponente agglomerato, un cuneo simbolico che vedeva in testa Stalin con indosso un pastrano militare e in mano un libro. Dietro di lui, sui lati lunghi del parallelepipedo, i bassorilievi che raffiguravano - in due gruppi allegorici di quattro elementi ciascuno - il popolo sovietico e quello cecoslovacco: il soldato, l´intellettuale, l´operaio, il contadino...
Una ben studiata campagna trasformerà l´impresa nel megacantiere a cielo aperto della costruzione del socialismo, quasi la sua rappresentazione figurata. Gli scrittori non stanno più nella pelle e, prima ancora che i lavori inizino realmente, già vedono svettare sulla collina la statua che ancora non c´è.
Scrive nel ´52 Pavel Kohout, il candido cantore di quegli anni: «Alto sopra la spalliera dei larici e dei viburni assopiti, / intessuto e sognato di marmo e di stelle, / nel sorriso nostro Stalin sorride, / sicura sentinella dei nostri lunghi cammini». Ma a partire dalla solenne inaugurazione di quel «colossale monumento al servilismo ceco e allo stesso tempo alla sua gigantomania» (V. Cerny), avviene però un fatto straordinario: il monumento ormai completato sembra non produrre più scrittura. La relazione segreta di Krusciov al XX Congresso del PCUS del febbraio 1956 (pur recepita in ritardo) spinge i censori alla cautela, gli scrittori al silenzio. La surrealista Eva Medkova scatta al monumento una foto: la macchina fotografica è puntata su Stalin, ma è quasi attaccata al piedistallo, molto in basso. Il risultato è un fantasma irreale, la punta di una scarpa, la piega del pastrano: un´assenza. Un´assenza a cui darà corpo l´esplosione del 20 agosto 1962. La dinamite. Come aveva scritto Elsa Triolet, la moglie di Aragon, in un romanzo intitolato Il monumento. Ma nel ´57, quando il romanzo esce, il Monumento sulla Letná è ancora ben saldo, e nessuno si sogna nemmeno lontanamente di toccarlo.
L´esplosione della statua di Stalin, incipit anticipato della Primavera di Praga, darà l´avvio a un revival del monumento che prenderà a riapparire per interposta figura, per allegoria, talvolta persino nella sua ingombrante fisicità. Ma, nel suo primo ritorno, appare solo nella propria assenza. Ciò avviene nel finale del bel cortometraggio di Pavel Juracek Una persona da appoggiare (1963). L´inquadratura si allarga mostrando in lontananza il piedistallo vuoto del monumento. La cinepresa comincia a scendere sui gradini della scalinata. Lo sfondo sonoro trasmette il tonfo ripetuto di una caduta.
Quel piedistallo vuoto però inquieta. Si cerca di esorcizzarlo, immaginandoci sopra schermi da proiezione per statisti intercambiabili, o magari uno Svejk da disegno di Lada. In una vignetta uscita il 10 agosto 1968, davanti a un attonito passante un piedistallo vuoto proietta sul muro l´ombra allarmante di un oratore in piena azione: il braccio alzato, un libro stretto nell´altra mano. Aveva ragione Bohumil Hrabal: «Che le lasciassero in pace le statue di Praga...».