Angelo Mincuzzi, Il Sole-24 Ore 13/8/2008, pagina 1, 13 agosto 2008
Gli uomini in divisa sono quattro. Varcano la soglia e raggiungono l’altro lato del tavolo. Offrono una bottiglia d’acqua minerale, un gesto cordiale ma anche il segno che l’interrogatorio non sarà breve
Gli uomini in divisa sono quattro. Varcano la soglia e raggiungono l’altro lato del tavolo. Offrono una bottiglia d’acqua minerale, un gesto cordiale ma anche il segno che l’interrogatorio non sarà breve. Cominciano le due ore più lunghe nella grande stanza del piano terra sul retro dell’Ufficio per la pubblica sicurezza di Pechino, a Dongcheng, nella zona nord della capitale. Due ore di interrogatorio nelle quali siamo stati continuamente registrati, ripresi, fotografati, in una parola schedati, ma mai perquisiti o oggetto di esplicite intimidazioni. in un moderno palazzone vicino al Tempio dei Lama che si chiedono i visti di ingresso e di uscita dal Paese, ed è qui che gli stranieri devono bussare per ottenere il permesso di protestare nella Pechino blindata per le Olimpiadi. Un’autorizzazione necessaria, pena l’espulsione o, peggio, il carcere. Sono le dieci e trenta del mattino quando raggiungiamo il salone affollato dell’ufficio informazioni al primo piano. Ci spediscono allo sportello 12, dove un’insegna in inglese recita ”Foreign dispute resolution”. All’agente di polizia spieghiamo di voler organizzare una manifestazione di protesta in una delle tre aree designate dalle autorità cinesi: il Ritan Park, nella zona centrale di Chaoyang, lo Zizhuyan Park, il parco del bambù viola nel quartiere finanziario di Pechino, e il Beijing World Park, all’estremo sud della città. L’agente chiede di aspettare. Pochi minuti e tre funzionari in divisa azzurra e blu ci indicano di seguirli. Uno di loro impugna una piccola videocamera e comincia a riprendere la scena. Scendiamo le scale e usciamo dal palazzo. Svoltiamo a destra, verso il retro dell’edificio. Qui veniamo fatti accomodare in una stanza dove l’unico mobile è un tavolo con una tovaglia bianca e otto sedie, quattro per lato. Attendiamo. Gli agenti non ci mettono molto ad arrivare. Consegniamo visti e passaporto che vengono portati via, controllati e fotocopiati. Poi all’improvviso un rumore secco e ripetuto emerge dal fondo della sala: un primo scatto, un secondo, un terzo. Solo adesso ci accorgiamo che c’è un altro agente con una macchina fotografica. Continuerà a ronzare attorno, davanti, di lato, di dietro e a scattare decine e decine di foto, a ripetizione, forse un centinaio, nelle due ore di interrogatorio. Ma a muoversi sono in due: un altro poliziotto imbraccia una telecamera professionale, con lo zoom, e anche lui si alza, cammina, si risiede, ma continua a filmare ogni momento, a indugiare sul volto, sui movimenti, da tutti gli angoli della stanza. Si capisce che non saranno scatti e filmati amatoriali. Chiediamo il perché di tanto impegno: «Per i nostri archivi», risponde il poliziotto con la stelletta, il più alto di grado. Nell’aria la tensione si sente e la pressione psicologica, sotto una pioggia di scatti senza sosta, è forte. L’interrogatorio inizia. L’agente seduto a sinistra parte con le domande e contemporaneamente redige il verbale. Chiede nome e cognome, indirizzo dell’albergo a Pechino e numero della stanza. Poi, il numero del cellulare cinese che utilizziamo. Domanda il motivo della protesta. Raccontiamo che vogliamo manifestare in favore della parità tra uomo e donna ma lui chiede di spiegarci meglio e di specificare qual è la nostra opinione sul tema. Sottolineiamo che è una questione che riguarda tutti i Paesi, dove le donne nei posti di potere sono ancora poche, e che non sappiamo bene come funzioni in Cina. Dall’altra parte del tavolo la tensione si smorza, i volti fanno su e giù in un gesto di approvazione. E l’ufficiale con la stelletta prende la parola: «Condividiamo la sua preoccupazione, questo è un problema importante e ci fa piacere che lo sottolinei. Se vuole possiamo metterla in contatto con organizzazioni che potranno spiegarle qual è la situazione in Cina». Sorprendente. In Italia non si è mai visto un funzionario della Digos che si preoccupa di organizzare per un attivista del Tibet un incontro con un esperto di politica internazionale o un colloquio con un giurista per qualcuno contrario alla pena di morte. Ma qui, evidentemente, la polizia politica ha orizzonti diversi. «Se vuole – aggiunge l’ufficiale - può incontrare il nostro esperto e dopo decidere se manifestare ugualmente». Accettiamo l’invito per un meeting ma decliniamo il rinvio: vogliamo andare avanti. Il poliziotto legge allora un libricino di poche pagine ed elenca le procedure. Nel frattempo le foto continuano, incessanti, peggio che a una star di Hollywood. Con serietà, l’agente spiega che è necessario preparare una lettera in cinese da consegnare cinque giorni prima della data della manifestazione. Dobbiamo spiegare perché vogliamo protestare, indicare il luogo e il giorno, dettagliare gli slogan che vorremmo urlare e quelli da scrivere su manifesti e striscioni. La frase deve essere approvata dall’ufficio di polizia. Il consiglio è di scrivere due, tre, quattro slogan alternativi: saranno loro a stabilire quello più appropriato. L’elenco continua. Va specificato se intendiamo utilizzare registratori e megafoni e di che tipo di manifestazione si tratti: un corteo o un presidio. Per la protesta itinerante va indicato con precisione il percorso, per quella stabile il punto preciso nel quale ci si vuole posizionare. Nel caso di almeno tre organizzatori va scelto un responsabile del gruppo che si occuperà di consegnare alla polizia tutta la documentazione. E comunque nella richiesta bisognerà indicare generalità e numero di passaporto di tutti. Se tra gli organizzatori c’è un cittadino cinese, dovrà recarsi personalmente dalla polizia a effettuare la sua registrazione. Percorso e luogo della protesta saranno soggetti ai cambiamenti che la polizia riterrà opportuni per assicurare l’ordine pubblico. Infine andrà specificato il luogo, all’esterno del parco, nel quale gli organizzatori si incontreranno incontreranno per raggiungere il posto della protesta. Nel frattempo, da più di un’ora, uno degli uomini seduti di fronte ha lasciato il suo posto a una giovane poliziotta che solo adesso ci chiede, in italiano, se sia tutto chiaro. «Abbiamo imparato molto da voi sulla sicurezza, a Torino, durante le Olimpiadi del 2006», dice. Chiarissimo. L’interrogatorio è finito. Il verbale ci viene fatto leggere. Quattro pagine, in cinese. La donna inizia a tradurre in italiano e scandisce l’ultima avvertenza: se non aspetteremo l’autorizzazione e protesteremo ugualmente, avremo violato le leggi cinesi. Chi lo ha fatto è stato condannato dai tre ai cinque anni di carcere per aver minacciato la sicurezza pubblica. Firmiamo tutte le pagine, con la data accanto. Possiamo andare. Fuori l’aria è calda e inquinata, ma sembra pura come quella di montagna. Angelo Mincuzzi angelo.mincuzzi@ilsole24ore.com