Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  agosto 13 Mercoledì calendario

VAGO

VAGO Valentino Barlassina (Milano) 16 dicembre 1931. Pittore. «[…] da lustri distilla solo luce e colori. E da quasi cinquant’anni, dal primo cinema, dipinge ”opere murali”, ovvero ospedali, banche, case, negozi, fabbriche, chiese. ”Una tela di dieci centimetri o un muro di diecimila per me sono la stessa cosa, perché tanto io non ci sono. C’è solo la bellezza che nasce da sé”. [...] ”Nelle mie chiese, voglio dare l’idea della levità. Dipingo l’altrove, in modo che chi entra si trova protagonista dell’immenso mistero trascendentale della bellezza. Più che i muri, dipingo l’aria, come una volta mi disse Tullio Pericoli”. Tutto ha la consistenza di un soffio, la trasparenza di una visione, perché Vago colora con una pistola a spruzzo, centimetro dopo centimetro (’come i graffitari”). ”Le mie opere nascono per partenogenesi, io sono solo uno strumento, il braccio che esegue l’opera. Ubbidisco allo spazio, intervengo il meno possibile. Più sono assente e più l’opera ha una sua personalità, suggerisce emozioni”. Questo dice Valentino, con un’umiltà che non è affettazione. [...] ”Dipingo con le mani, accarezzo i colori, li stendo sulla tela finché non si illuminano. un lavoro lungo, fisico, certe volte mi sanguinano addirittura i polpastrelli. E qualcuno pensa che il mio tumore (al fegato, ndr) sia stato appunto provocato dai componenti chimici velenosi che contengono. Ma io ci credo poco, i colori sono la vita per me, sono la bellezza, non possono darmi la morte. E se anche fosse non importa”. Vago viene da una famiglia di mobilieri della Brianza. Speravano, i suoi genitori, di fargli studiare il design per poi riportarlo nell’azienda a disegnare mobili. A Brera, invece, è stato fologorato dalla pittura. Si faceva rinchiudere in classe dai bidelli oltre la fine delle lezioni per poter finire il suo lavoro, perché non voleva interrompere un’emozione. Poi, a un certo punto, ha abbandonato il sentiero figurativo. Ha preso tutti i suoi quadri e li ha bruciati in un falò in giardino. Di quel periodo, che dimostra il suo talento nel disegno, resta quasi nulla. [...]» (Bruno Ventavoli, ”La Stampa” 25/5/2008).