Laura Putti, la Repubblica 10/8/2008, pagina 44, 10 agosto 2008
Allegro e pieno di energia, Claude Chabrol si gode la vacanza. Cioè sta girando un film. Se per i comuni mortali la partenza è associata all´interruzione del lavoro, per lui no
Allegro e pieno di energia, Claude Chabrol si gode la vacanza. Cioè sta girando un film. Se per i comuni mortali la partenza è associata all´interruzione del lavoro, per lui no. «Detesto i viaggi, detesto le vacanze» dice il regista, seduto in uno dei salottini della Maison de Sophie, bellissima villa dei primi del Novecento trasformata in hotel de charme. «Parto soltanto quando devo girare. Quindi, sul set, mi considero in vacanza. Vacanze tutte diverse, a seconda dei film». Chabrol è in vacanza da cinquant´anni: Le beau Serge, il primo film, lo girò nel 1958. «Riuscii a farlo grazie a un´eredità, con i soldi della nonna di Agnès, la mia prima moglie. Trentadue milioni di vecchi franchi. Non era ancora uscito nelle sale che già l´avevamo venduto ovunque, guadagnando tre milioni. Così, subito dopo, ho potuto iniziare a girare il secondo film». I cugini, uscì nel ”59. Quello sì che fu un successo. «Costò quasi il doppio del primo, cioè la metà di un film normale. Incassò nove volte tanto. Quel denaro ci permise di fondare una società di produzione, la Agym, dedicata alle opere prime e seconde. Grazie alla Agym, Eric Rohmer girò Il segno del leone, e Jacques Rivette Paris nous appartient». Ha mai più rivisto i suoi primi film? «Non sono uno che si guarda alle spalle, però, sì, mi è capitato». E che cosa ha pensato? «Che Le beau Serge fosse un po´ maldestro, ma che fosse un film carino. E che I cugini, al contrario, fosse troppo "destro". Un po´ "guardate che cosa so fare". Meno male che l´aspetto "guardate che cosa so fare" fosse un po´ anche il senso del film, perché uno dei personaggi era effettivamente così. I cugini assomigliava al Sorpasso di Dino Risi. Tra Jean-Claude Brialy e Gérard Blain c´è lo stesso rapporto che c´è tra Gassman e Trintignant. Ma Risi aveva più esperienza di me e trovò un modo più elegante, più discreto, per mostrare la superbia del suo protagonista». Dicono che Le beau Serge inaugurò la Nouvelle Vague. «Lo dissero, ma io non me ne rendevo conto. Come tutti i registi di quel periodo amavo il cinema nella sua totalità. Mi nutrivo di cinema, vivevo per il cinema. Il resto non mi interessava». Nel ”57, quando ancora era critico per i Cahiers du Cinéma, assieme a Rohmer aveva pubblicato un libro su Hitchcock. La passione per la regia nacque dai suoi film? «Nacque molto prima. Durante la guerra, adolescente, facevo il proiezionista nonché il programmatore dell´unica sala del paese di mia madre nel quale ci eravamo trasferiti. Tornati a Parigi, nel ”46, a sedici anni, mi iscrissi al cineclub universitario alla Bastille. E, colpo di fortuna, il primo film che vedo è Il testamento del dottor Mabuse. Verso la fine della prima "pizza", esattamente quando Lang inquadra il piede del tipo che si nasconde, mi sono detto: è questo che voglio fare. Sono schizzato in piedi senza rendermene conto e la gente ha protestato. "Seduto!", urlavano, ma quasi non li sentivo. Lang mi ha folgorato ancor prima di Hitchcock». Quindi possiamo dire che tutto sia partito da quel piede, unico indizio di un personaggio non visibile, per mostrare quello che si nasconde dietro la società, la famiglia, la borghesia. Per questo, nel suo cinema, niente è mai quello che sembra? «Trovo che così sia più divertente. Sono un ottimista e sul set mi diverto molto. Sono allegri, i miei film». In mezzo secolo non ha mai smesso di girare. Almeno un film l´anno, spesso due, alle volte anche tre. Tanto che oggi siamo quasi a sessanta. «Dal ”67 al ”74 ho fatto tredici film, più la televisione. Ne ho fatta tanta di televisione, proprio perché trovavo ridicolo che negli anni Settanta la gente di cinema la snobbasse. Dicevano che la televisione era per registi che non potevano permettersi di fare film. Ho dimostrato il contrario. Mi chiesero di girare due racconti di Henry James. Come avrei potuto rifiutare? Erano film di cinquanta minuti e, con il sistema della tv, si giravano rapidamente. Da quel momento, molti cineasti che non avevano mai lasciato il cinema si sono messi a fare televisione senza averne vergogna. Proprio in quell´epoca, però, mi sono rimesso in questione. Lavoravo talmente tanto che diventava routine, era come andare in fabbrica. Ma allo stesso tempo mi divertiva moltissimo. Non ho mai smesso di amare questo mestiere». Erano gli anni di Lo scandalo, Le cerbiatte, Una moglie infedele, Il tagliagole, Dieci incredibili giorni. Non sembrava in crisi di creatività. «In crisi non sono mai stato». Si sarà pur sbagliato, una volta. «Sbaglio quando dico: accidenti che bel film sto girando. Quelli lì, nelle sale, non vanno mai bene». Li ama tutti, i suoi film? «Non allo stesso modo, ma sono come figli. Quindi li amo tutti. Ci sono film che ho fatto quasi per gioco, altri con spunti molto seri. Riconosco di averne falliti tre, ma neanche con una pistola alla tempia dirò quali. Ci sono anche film che ho fatto volutamente brutti». Come mai? «Mi hanno passato un ordine di merda, e merda hanno avuto. Io ho detto: vorrei girare questo. Mi hanno risposto: gira questo, piuttosto. Ho eseguito ed è stato peggio per loro». Doveva essere molto tempo fa, perché i suoi set sono famosi per essere oasi di pace e di armonia, con mense prelibate come ristoranti a tre stelle. «Sembra quasi che non stiamo lavorando, vero? Dipende dal fatto che detesto i conflitti». Non fanno bene, i conflitti, ogni tanto? «Non nel mio caso. Perché so che li vincerò. Non entro in conflitto per non umiliare chi mi sta accanto. Su un set la posizione del regista è molto forte». Non le è mai capitato di lavorare con un rompiscatole? «Ci sono stati rompiscatole, certo, perché puoi sbagliarti nel giudicare una persona. Ma se è accaduto una volta, non c´è mai stata una seconda». Sembra che Isabelle Huppert, con la quale lei gira dagli anni Settanta - da Violette Nozière fino al recente La commedia del potere passando per Il buio nella mente, Un affare di donne, Madame Bovary - non abbia un carattere facile. «Con me è perfetta. Una delizia. Sin dall´inizio della sua carriera, quando l´ambiente cinematografico francese fu scosso dall´arrivo delle due giovanissime Isabelle - Huppert e Adjani - ho sempre saputo che lei era la migliore». Il suo rapporto con gli attori sembra ideale. Non li dirige e di una scena, al massimo, fa due ciac. «Dicono che io abbia un´autorità naturale, misteriosa. Sul set quasi non parlo, ma tutti capiscono quello che voglio. strano, è curioso, ma è così». Come definirebbe un suo attore? «Non è un tipo che mostra i fatti reali, ma uno che rivela la poesia della realtà. E non è la stessa cosa. Un dilettante non ne sarebbe capace». Improvvisamente la villa viene scossa da un suono gutturale e impressionante. Si direbbe un barrito, o un ruggito. «Niente paura: è Gérard». Dalla porta socchiusa si scorge Depardieu che arranca verso il primo piano. enorme. In maglietta e mutande. Afferrando il corrimano, sale le scale a fatica. «In cinquanta anni è la prima volta che lavoro con Gérard Depardieu. Avremmo dovuto fare il Balzac per la televisione; ma prima non poteva lui, poi non potevo io. Alla fine lo ha fatto con Josée Dayan, che è stata mia assistente. L´anno scorso, con Odile Barski, abbiamo scritto la sceneggiatura di Bellamy, il film che sto girando qui a Nimes. , come dicono, un «thriller psicologico» e il personaggio del commissario Paul Bellamy è stato scritto pensando a Gérard. Lui, per esempio, è il tipo di attore che un secondo prima del ciac fa un baccano d´inferno; poi arriva in scena ed è concentratissimo, sempre perfetto». I giovani attori di oggi sono diversi da quelli di ieri? «Penso che siano migliori». Grazie alle scuole? O alla vita? «Grazie alla scuola della vita. Imparano meno cose, hanno meno regole, meno concetti nella testa, quindi inventano meglio». Anche il cinema è cambiato. Oggi, durante le riprese, lei e sua moglie Aurore siete seduti davanti al "combo", il piccolo schermo, in una stanza attigua alla scena. «Cinquant´anni fa di ogni scena facevo anche quattro ciac. Per avere un po´ più di scelta durante il montaggio. Oggi, grazie al "combo", il girato si vede subito ed è un vantaggio». Non ha mai nostalgia del rumore della cinepresa, dell´odore del cinema? «Quelle cose lì non le ho mai perse. Non sono di quelli che restano sempre in sala regia, come un regista televisivo. Giro per il set, mi piace essere in mezzo ad attori e tecnici». Quanto, nel cinema, è importante la tecnica? «Abbastanza, ma per impararla ci vogliono quattro ore. Basta capire come inquadrare gli sguardi di due attori che si parlano. Campo e controcampo, e il gioco è fatto. Dopo, però, bisogna capire il perché delle inquadrature. Negli anni Quaranta, subito dopo la guerra, uscì in Francia un libro che fece morire dal ridere tutti i cineasti. Si intitolava La petite grammaire cinematographique. L´aveva scritto uno dei peggiori registi dell´epoca, si chiamava André Berthomieu. Raccontava cose basiche, ma non spiegava a che cosa servissero; quale potesse, per esempio, essere il senso di un´interruzione di un campo-controcampo. E questo, nel cinema, è molto più lungo, più difficile da imparare». Qualcuno fuori dalla porta urla «Chachà, la macchina è pronta». Cecile Maistre, assistente alla regia, figlia della moglie Aurore. A ogni film di Chabrol partecipa la famiglia: ha un figlio e un nipote attori, un figlio musicista. E dire che uno dei soggetti più presi di mira dal suo cinema è proprio la famiglia e la sua ipocrisia. Il fiore del male e Grazie per la cioccolata, tanto per restare in questo secolo. «Perché una famiglia funzioni deve essere completamente trasparente, e non lo è mai. La nostra sì, tra noi non ci sono segreti. Per questo riusciamo a essere un vero clan». Claude Chabrol si alza, saluta e si avvia verso l´automobile che lo porterà sul set. Oggi girerà in un motel in mezzo al niente, alla periferia di Nimes. Minuscole stanze arredate con mobili di formica, quarantasette euro la doppia connessione internet inclusa. Che posto incantevole per una vacanza. Laura Putti