Paolo Colonnello, La Stampa 10/8/2008, pagina 46, 10 agosto 2008
Si lavora in due turni: uno dal mattino alla sera, l’altro dalla sera alla mattina. Semplice no? I capi hanno le magliette rosse, noi quelle azzurre
Si lavora in due turni: uno dal mattino alla sera, l’altro dalla sera alla mattina. Semplice no? I capi hanno le magliette rosse, noi quelle azzurre. Facile. Sia chiaro: la democrazia non si sa cosa sia, però le cose funzionano». Maglietta azzurra, pantaloni grigi, scarpe Adidas e cappellino d’ordinanza. Gentilezza orientale e grandi sorrisi. Gli occhi però non sono a mandorla e l’accento è quello triestino. Si chiama Giorgio Vettor ed è l’unico italiano a far parte dell’esercito dei 150 mila volontari cinesi per le Olimpiadi. Tutti molto motivati, giovani e un po’ brufolosi. Tranne lui, che ha 63 anni, pochi capelli e grande entusiasmo. Sposato per la 4ª volta con una signora cinese, vive qui dal 1995. «Visto che sono pensionato e avevo un sacco di tempo libero, quando nel novembre scorso ho letto l’annuncio sul China Daily con cui cercavano i volontari anche tra gli stranieri residenti, ho spedito la domanda. In marzo mi è arrivata la conferma, in maggio sono stato reclutato. Tre settimane fa ci han detto cosa fare e hanno distribuito le divise: tre magliette a testa, due paia di pantaloni, scarpe, marsupio, cappellino e mantella antipioggia». Efficiente come un cinese, scanzonato come solo i triestini sanno esserlo. «Ah, ma io mi diverto un sacco sa? Arrivo al banchetto in aeroporto e sto lì a ciacolare con i miei due ragazzotti cinesi. Abbiamo il nostro computerino, le mappette, i depliantini e se qualcuno ha bisogno di aiuto, oplà, siamo qua. Lavoro un giorno sì e uno no. Visto che hanno reso obbligatorie le targhe alterne, se posso usare l’auto mi faccio i fatti miei, quando devo stare fermo vado all’aeroporto ad aiutare». L’italiano che c’è in noi non si scorda mai. Anche se poi, con la maglietta del volontario addosso, Vettor si comporta come gli altri 150 mila: corre a prendere le bottigliette d’acqua da regalare ai turisti, ti accompagna al taxi, ti spiega dove ti trovi e dove puoi andare. «In Cina mi trovo da Dio». E chi l’avrebbe mai detto? Un Marco Polo del 2000 alla corte del Kublay Khan comunista. «Comunista? Boh, ma qui del comunismo non se ne sa più nulla. Mia suocera che è cinese e ha 80 anni, è passata da Mao Dze Dong a Hu Jintao probabilmente senza nemmeno capire bene cosa sia successo. Prima erano servi della gleba, ora non si sa. Di fatto i giovani imparano l’inglese fin dalle elementari e sanno smanettare tutti in Internet che è un piacere. Per quanti sforzi faccia, la censura non riesce più a stargli dietro». Quando Vettor mise per la prima volta piede a Pechino, era un’altra città: «Case basse o in stile sovietico, due tipi di autobus, milioni di biciclette, qualche vecchia Audi nera per la nomenclatura. Oggi mi sembra di stare a New York, nei negozi trovi di tutto, dal parmigiano all’olio d’oliva. La vita è più facile e molto sicura». E la dittatura? «Certo, qui la democrazia non esiste. Per dire, se un giorno qualcuno decide che il quartiere dove abiti fa schifo e deve essere abbattuto, il giorno dopo arrivano gli ometti e tirano giù tutto. E tu mica puoi andare a dire ”’ma è il posto dove sono nato è vissuto’’. Semplicemente prendi le tue cose e ti trasferisci in una casa che ti assegna il governo, magari più bella e comoda, ma in un quartiere lontano 20 km. Ma non bisogna fermarsi alla prima impressione. Hu Jintao è un leader riformatore di cui gli occidentali sanno poco. Governare qui è un arte: esistono 5 scuole per funzionari pubblici e puoi fare carriera solo se passi esami severi. Per dire, in Cina una Carfagna ministro non è neanche immaginabile...». Ora Vettor è in attesa del visto permanente: «Perché anche se mi sono sposato e sono buddista, rimango pur sempre uno straniero. Per ottenere la ”’green card’’ cinese, bisogna risiedere almeno 9 anni ed essere sposati da 5. E a settembre mi tocca». Paolo Colonnello