Marcello Foa, il Giornale 12/8/2008, pagina 5, 12 agosto 2008
I presidenti cambiano, ma loro restano, sono le grandi menti della politica estera americana, come Andrew Marshall, che dal 1973 guida l’Ufficio scenari strategici del Pentagono
I presidenti cambiano, ma loro restano, sono le grandi menti della politica estera americana, come Andrew Marshall, che dal 1973 guida l’Ufficio scenari strategici del Pentagono. Potentissimi e invisibili. Sono sconosciuti al grande pubblico, ma ispirano le mosse dell’America sullo scacchiere internazionale, garantendo continuità tra un’Amministrazione e l’altra. Non sono infallibili e la leggerezza con cui gli Usa hanno affrontato la guerra in Irak lo dimostra. Ma la loro mano è ben visibile in molti scenari, a cominciare da quello russo. Da circa vent’anni Washington sottrae al Cremlino crescenti sfere di influenza. Con uno scopo: accerchiare la Russia, ridimensionarla politicamente e garantirsi il controllo degli snodi euroasiatici sia energetici che politici che militari. Basta prendere una cartina degli anni Ottanta per rendersi conto dell’estensione dell’impero comunista sovietico. Ingloba tutta l’Europa dell’Est, l’Asia centrale, controlla l’Afghanistan e può contare sulla compiacente neutralità dei Balcani grazie alla Jugoslavia di Tito e all’Albania, entrambe socialiste, sebbene non allineate. Nel 1989 cade il Muro di Berlino e l’Armata Rossa abbandona l’Afghanistan. Poi tutto avviene con strabiliante rapidità: appena due anni dopo, nel 1991, l’Unione Sovietica non esiste più. Liberi tutti. Libera, a ben vedere, anche la Russia, che sprofonda nella miseria e smarrisce la propria forza militare, diventando un partner docilissimo. Priva di un nemico planetario, Washington potrebbe ridurre il proprio impegno nell’area. E invece passa alla fase due, quella tracciata dai suoi strateghi. Come? Facendo entrare gli ex satelliti europei di Mosca sia nella Nato che nell’Unione europea; creando, dunque, un doppio vincolo, militare e politico. Ma la Russia è pur sempre una potenza nucleare, occorre agire gradualmente. Nel 1994 i Paesi Baltici, l’Ungheria, la Polonia, la Slovacchia, la Repubblica Ceca e la Bulgaria diventano candidati ufficiali all’adesione sia della Ue sia della Nato. Cinque anni dopo Praga, Budapest e Varsavia entrano a pieno titolo nell’Alleanza. Il test è decisivo per sondare la forza di Mosca, che strepita ma, stordita dalla crisi finanziaria, lascia fare. il segnale atteso da Washington. Nel 2004 tutti i Paesi dell’ex Patto di Varsavia entrano nel club militare atlantico e, parallelamente, nell’Unione europea, che nel 2007 apre anche a Bulgaria e Romania. Non tutti i criteri sono rispettati? L’adesione è prematura? Pazienza, in termini geostrategici ciò è ininfluente. L’importante è ancorarli all’Occidente. Lo stesso avviene con l’ex Jugoslavia. Le guerre in Bosnia e nel Kosovo vengono risolte con l’intervento decisivo degli americani, che possono così controllare i Balcani, tranne la Serbia ma inclusa l’Albania. Un capolavoro, ma incompleto; mancano all’appello altri Stati. Gli attentati dell’11 settembre offrono agli Usa la possibilità di puntare all’Asia centrale. Occorre combattere il terrorismo fondamentalista islamico che spaventa tutti; anche Putin che sostiene la guerra in Afghanistan contro il regime talebano e pertanto non si oppone quando Uzbekistan e Tagikistan consentono a Washington di aprire basi militari sul proprio territorio. La Casa Bianca si muove rapidamente e stringe relazioni molto strette, anche militari, con il Kazakistan e con l’Azerbaigian. In quella zona dell’ex Unione Sovietica, solo il Turkmenistan resta fedele a Mosca, mentre l’Armenia si mantiene equidistante. E non è finita. La Moldavia, sorella della Romania, pende spontaneamente dalla parte degli Usa. Nel 2003 inizia la stagione delle rivoluzioni popolari, che oggi sappiamo ispirate dagli americani; quella rosa in Georgia costringe alla fuga Shevardnadze, che viene rimpiazzato da un giovane avvocato laureato a New York, Mikhail Saakashvili. L’anno dopo la rivoluzione arancione permette la vittoria in Ucraina del filoamericano Viktor Yushchenko. Nel 2004 la missione sembra quasi compiuta. Un’occhiata alla carta geografica e il quadro è chiaro: la Russia è di fatto accerchiata a ovest e a sud da Paesi alleati o amici degli Stati Uniti. Tutto facile, troppo facile. Può un Paese grande come la Russia e con un passato imperiale arrendersi senza reagire? Ovvio che no, tanto più che il Cremlino si scopre ricco, grazie al petrolio e al gas. Putin, fino a quel momento amico di Bush, reagisce. offeso e al contempo terrorizzato. Offeso per lo scippo dell’Ucraina, progenitrice e sorella della Grande Russia. Terrorizzato, perché convinto che Washington stia complottando una rivoluzione colorata a Mosca per rovesciarlo. E allora parte la controffensiva. Mosca destabilizza il regime arancione a Kiev, richiama all’ordine il Kazakhstan, il Tagikistan e l’Uzbekistan, che si riavvicinano a Mosca, allentando il legame con gli Usa. Poi si occupa della pratica georgiana. Si schiera al fianco dei secessionisti osseti e abkhazi. Attende l’occasione propizia. Saakashvili gliela offre l’8 agosto con il suo improvvido blitz. Le truppe russe entrano in Georgia. la prima, grande rivincita di Mosca. Washington è avvertita. Marcello Foa