Giancarlo Dotto, La Stampa 12/8/2008, pagina 25, 12 agosto 2008
La Stampa, martedì 12 agosto Migliaia di concerti, non sa nemmeno lui quanti. Stavolta è lo stadio del baseball a Grosseto, come dire un covo di eretici, sole a picco, duro a morire, zanzare come piccioni, non alita nulla, che non sia la boccheggiante attesa delle persone in fila, tremila almeno, sbucati dalle spiagge o dalle tende, famiglie intere in braghe e sandali, valgono i cinquantamila dell’Arena o i centomila del Circo Massimo
La Stampa, martedì 12 agosto Migliaia di concerti, non sa nemmeno lui quanti. Stavolta è lo stadio del baseball a Grosseto, come dire un covo di eretici, sole a picco, duro a morire, zanzare come piccioni, non alita nulla, che non sia la boccheggiante attesa delle persone in fila, tremila almeno, sbucati dalle spiagge o dalle tende, famiglie intere in braghe e sandali, valgono i cinquantamila dell’Arena o i centomila del Circo Massimo. Che sia Maremma, profondo sud o estremo nord, Antonello Venditti è sempre lì e anche la sua gente è sempre lì. Presente. Passionale. Una Marlboro dopo l’altra ma la voce quella di sempre, non batte mai la fiacca, ti acchiappa anche se non hai voglia, quello di sempre il boato di «Sara svegliati è primavera» o «Compagni di scuola, compagni di niente». Non deve nemmeno far finta di essere sano, Antonello, gli basta, aprire petto, gola e maschera, gli basta cantare. Non devi essere romano o romanista, nichilista, leghista o comunista, per capire che fino a quando canta uno così, il mondo è libero di sembrare quello che è, una scorciatoia tra la pelle e il cuore. «Ben strano che tu voglia parlare di musica con un musicista», conviene lui. Non si parla più di musica, meno che mai a Sanremo. «Sanremo è televisione. L’ultima volta l’ho seguito perché c’era Luigi Tenco. M’incuriosiva, era bizzarro vederlo lì su quel palco. Tenco suonava il pianoforte come me. A quei tempi il cantautore non aveva strumento. Penso a Gino Paoli, Piero Ciampi, Sergio Endrigo. Tenco mi affascinava per la personalità, i tratti somatici, la veemenza». Sono passati anche Zucchero e Vasco Rossi a Sanremo. «E Sanremo li fa arrivare ultimi. Quando lo sentii cantare ”Donne”, dissi subito ”questo Zucchero è uno speciale”. Vasco Rossi venne un giorno a intervistarmi. Era uno dei soci fondatori di ”Punto Radio”, una radio modenese che amava la musica. Quando usciva un album ne parlava un giorno intero, lo sezionava in ogni minimo dettaglio». C’è meno attenzione, meno tensione oggi per la musica? «La musica viaggia oggi sul mercato dei suoni globali, via internet, microcosmi in cui ci si scambia di tutto in tempo reale. Non è più come quando i dischi in Italia arrivavano un anno dopo. Ci addormentavamo la notte con la radiolina accesa per carpire qualcosa dal mondo. Dovetti andare in Inghilterra per ascoltare ”A Whiter Shade of Pale”. Arrivò da noi, quando altrove era finita». Generazione musicalmente fortunata la tua, la nostra. «Sono del ”49. Mio zio Alberto, un jazzomane, mi trasmise la passione. Ero un bambino obeso che si rifugiava nella musica. Studiavo solfeggio dalla signorina Corpaci ma fu Annibale, un amico di mio zio, che m’insegnò a suonare il piano. Rinnegai la musica scritta, quando cominciai a scriverla, ero troppo grasso, facevo fatica a girare la pagina. Avevo 13 anni quando la Corpaci mi ripudiò. Tendevo a trasfigurare i classici». Beatles o Rolling Stones? «Non scherziamo. I Beatles furono popolari e rivoluzionari nello stesso tempo. L’avanguardia che diventava immediatamente patrimonio collettivo. E poi c’è Dylan. Senza Bob Dylan la musica sarebbe morta su se stessa. I Beatles e Dylan mi hanno portato dentro la musica in modo definitivo». Tornando a Venditti che scandalizza l’insegnante di piano. «Una domenica, avevo 14 anni, sono lì che suono il pianoforte ed emetto una cosa, un suono. Era ”Sora Rosa”, la mia prima canzone d’autore. Mi uscì così dal nulla. Erano faticose le mie domeniche. Mia nonna materna, cattolicissima, mi trascinava alla messa delle 8 e poi a quella di mezzogiorno. A volte mi toccava pure la messa vespertina. Cominciai a darmi malato. ”Sora Rosa me ne vado via” mi uscì tutta insieme da qui dentro. Ero spaventato». Spaventato? «Era esattamente la canzone che non c’era. Avevo già sentito tutta la musica del mondo. Mancava qualcosa, qualcuno, quello ero io, quella era ”Sora Rosa”. Ero un bambino ipersensibile. La musica era il mio modo di essere intimo con me stesso, piangevo, ridevo, mangiavo con i dischi. Dentro ”Sora Rosa” c’era tutto, mia nonna, il cattolicesimo, la giustizia, Dio. Ebbi la forza di chiudere il pianoforte e non farla sentire a nessuno. Era il mio segreto. A distanza di sei mesi, mi capitò un secondo colpo». Roma Capoccia . «Sfruttai stavolta un mal di pancia per inventarmi una Roma mia, tutta immaginaria. Vivevo nell’ovatta. Essere un barile, sbeffeggiato da tutti, mi discriminava. Non avevo mai preso un autobus da solo, mai stato fuori dal mio quartiere. Tutto scuola, casa e chiesa. Mia madre, professoressa di latino e greco, pretendeva da me l’impossibile. Mio padre era il braccio violento della legge, da ex anarchico bakuniano a vice prefetto di Roma. Ma lui mi parlava, mi spiegava, mia madre pretendeva e basta». Il ragazzo barile intuisce subito che Roma Capoccia diventerà la canzone manifesto di una città? «Macchè. La sentivo inferiore a ”Sora Rosa”. Mi sono sempre anche un po’ vergognato di cantarla. Mi sembrava una canzone turistica. Sbagliavo». Il padre. Una montagna troppo alta da scalare. «Severo ma amico. Da ex libertario aveva un’idea altissima della giustizia e dello Stato. Quando arriva il ’68, lui era già vice prefetto, aveva delle informative su di me. Mi faceva capire che non dovevo fidarmi dei miei occhi, che c’erano delle spie ad esempio tra i compagni. Fu lui ad avvertirmi della P2. ”Attento, il tipo che hai incontrato ieri non è quello che sembra…”». La voce. Quando scopre che ha una voce? «Al Folkstudio di Roma. Gli altri suonavano la chitarra, io dovevo superare con la voce il pianoforte. A 16 anni facevo un do di petto preciso». Antonello Venditti o Francesco De Gregori? «Francesco è prima di tutto un mio amico. Siamo due facce della stessa medaglia, che si guardano l’un l’altra. Lui scrive più ermetico, a volte la letteratura prevale sulla poesia. Io preferisco far male qui, dritto al cuore. Siamo come le parallele di Moro che convergono all’infinito. Simili e diversi, abbiamo accompagnato la storia del nostro Paese, del partito comunista, di tutta una generazione». Antonello Venditti e Vasco Rossi, gli ultimi grandi cantautori pop italiani? «Parliamo di noi, delle nostre vite, il processo di identificazione scatta potente. Siamo rimasti in pochi a parlare in prima persona». Tiziano Ferro? Avete tra l’altro in comune l’obesità giovanile. «Gli mancano i grandi temi ma quando canta il privato m’interessa. Jovanotti vorrebbe essere il De Gregori dei nostri tempi. Ligabue? Lo capisco, ma non mi emoziona». Voci al femminile. Laura Pausini? «La considero la Carrà della musica, grande presa sul pubblico, ha un futuro come intrattenitrice. Giorgia? Canta tutte le note perfette, ma spesso la perfezione è un limite. Mi piacciono Elisa e la Consoli. E questa nuova, Giusy Ferreri. Non è uno stereotipo». Il concerto memorabile. «Quello allo stadio di Asmara per la fine della guerra. Cantare ”Sara”, una canzone di pace alla fine di una guerra, lì, in quel luogo, in quel momento, una forza evocativa che diventò vertigine pura». C’è qualcosa di meglio da fare al mondo che cantare? «Nel ’92, dopo il secondo Circo Massimo, al massimo del mio successo, mi dedicai a quello che considero il mio Paese, l’Eritrea. Ma il mondo non va dove desideri tu. Isaias Afewerki era mio amico, mi ha deluso. Quando vedo i barconi di esuli eritrei che scappano dalla loro terra promessa, penso a un sogno tradito. Ora mi dedico alla Sierra Leone, dove i bambini militari si sparano tra loro. Mi fido ciecamente delle strutture cattoliche». Cantore di amori difficili ma anche di vite deviate. Il tema del suicidio ricorre. Tenco, Pantani, Di Bartolomei. «Volevo bene a Di Bartolomei, ho provato a entrare nella sua testa, ma non ho trovato nulla che giustificasse il suicidio. Penso a Maradona. Senza l’amore dell’Argentina sarebbe morto. Il campione ha bisogno di più amore degli altri». E’ cambiato il pubblico? «Non esiste il pubblico. E’ la canzone che crea il pubblico». Mai stanco di essere Venditti? «Il giorno che mi stanco, smetto. Ora sul palco non suono più il pianoforte. Voglio ritrovare la smania di farlo. L’ho suonato solo all’Arena di Verona. Quando ho cantato ”Le cose della vita”, ho pensato, ecco la canzone del mio funerale». Veltroni o Alemanno? «Bertinotti. Incarna un’idea della politica alta, lontana dai propri interessi privati. Quando parlo con lui, mi sento bene. Di Veltroni apprezzo l’idea di semplificare la politica. Alemanno? Sto ancora aspettando che mi chiami per ripensare insieme ad altri il futuro di Roma». Giancarlo Dotto