Lucia Annunziata, La Stampa 12/8/2008, pagina 1, 12 agosto 2008
La Stampa, martedì 12 agosto Nella prima vera crisi, che esplode oggi e che dopo le elezioni di novembre sarà probabilmente ancora aperta, i due candidati alla Casa Bianca hanno avuto la possibilità di mostrare la loro statura come leader del mondo
La Stampa, martedì 12 agosto Nella prima vera crisi, che esplode oggi e che dopo le elezioni di novembre sarà probabilmente ancora aperta, i due candidati alla Casa Bianca hanno avuto la possibilità di mostrare la loro statura come leader del mondo. E stando alle prime reazioni, si sono rivelati inadeguati al momento. La prova generale del conflitto in Georgia ha trovato il primo, McCain, pronto all’impegno al fianco della Repubblica ex sovietica - sbattendo però così contro il muro di cautela che il suo amico e presidente George Bush ha innalzato intorno alla questione; il secondo, Obama, si è limitato, dopo quasi tre giorni, a dire di essere preoccupato e di volere un mediatore terzo alla crisi (caspita!) - rivelando così un grande buco nella sua speranzosa dottrina di un mondo post 9/11. ancora troppo presto perché gli elettori colgano queste debolezze, essendo l’America assorbita, come del resto fino a poche ore fa il suo Presidente, nei giochi Olimpici. Ma nei circuiti politici e mediatici, e in quello altrettanto fervente dei blog, la povera performance dei candidati non è sfuggita. Soprattutto perché nella esitazione di queste ore si rispecchia una sorta di resa dei conti con le scelte degli ultimi anni in politica estera, fatte sia da democratici che repubblicani. Sulla Georgia, e sull’Ucraina (l’altra nazione minacciata dall’intervento russo) pesano infatti le ombre di Bill Clinton e George Bush, ma anche le teorie del multilateralismo e dell’unilateralismo, della Realpolitik di anni addietro di Kissinger, e quella più vicina dei Neocon. A riprova di questo intreccio, le dichiarazioni dei due candidati allineano ciascuno su un diverso asse. McCain ha preso una posizione interventista, dichiarandosi decisamente al fianco della Georgia. Per l’anziano militare è una uscita non sorprendente visto il suo attivo coinvolgimento già in passato con la Georgia - ma le sue parole contrastano con la moderazione dell’attuale Bush, posizionandolo piuttosto con i Neocon. Obama invece oggi al fianco di Bush, con la sua richiesta di mediazione internazionale. Il riallineamento è di non poco conto, perché segnala non solo la generale difficoltà dei candidati, ma degli stessi Stati Uniti nei confronti della Russia. Chi è la Russia per gli Usa, un amico o un nemico? E’ la questione che negli ultimi anni ha attraversato la comunità dell’intelligence e degli esperti. E che finora era stata risolta in superficie con un certo fideistico ottimismo della storia. In un recente saggio, l’arcirealista Henry Kissinger ha scritto che l’era di Putin «non è guidata da sogni di restaurazione della propria gloria», ma «dalla ricerca di un solido partner, con l’America come soggetto preferenziale». Gli aveva fatto eco, sul versante sinistro, Stephen Cohen, celebre studioso di Russia e professore a Princeton, che ha sempre indicato la strada delle relazioni fra le due ex potenze come necessariamente di alleanza. Tuttavia, una corrente di pessimismo e intransigenza ha sempre continuato a vivere sotto le dichiarazioni più ufficiali: la posizione, ben conosciuta, dei Neocon, riconfermata ieri da editoriali di Robert Kagan e Bill Kristol. Il primo che è anche advisor di John McCain ha ripreso il tema del suo libro «The Return of History and The End of Dreams», secondo il quale la principale ambizione dei russi «è ristabilire la Russia come il potere dominante in Eurasia». E Kristol ha fustigato l’impotenza Usa paragonandola alla impotenza dell’Occidente nei confronti del patto Hitler-Stalin. Ma, sia pur meno virulenta, anche nel campo di Obama questa opinione al fondo è sempre stata condivisa: Michael McFaul, di Stanford e advisor del candidato democratico, ha sempre sostenuto che la Russia è uno stato premoderno, dominato «dalla mentalità di Guerra Fredda di Putin», per il quale, «ogni cosa che può danneggiare gli Usa va bene per noi». La guerra in Georgia, e la eventuale difesa dell’alleato, era dunque nelle carte: perché allora nel momento in cui la crisi precipita nessuno in Usa, a cominciare dal Presidente per finire ai due candidati, sembra avere una ricetta per affrontarla? La risposta è probabilmente nella crudezza con cui la Russia ha, abilmente, evocato il fantasma del Kosovo. Se quella guerra fu fatta per la difesa dei diritti umani di una minoranza, e finì con la separazione dello Stato Kosovaro dalla ex Jugoslavia, gli Stati uniti si trovano oggi di fronte a un deficit di «legalità». Un deficit che entrambi i partiti politici condividono: se è stato infatti Clinton a inventare la guerra umanitaria, è stato Bush a concedere l’indipendenza al Kosovo. Infine, c’è il non piccolo problema delle responsabilità degli Stati Uniti nel conflitto in Georgia. Gli Usa hanno in Georgia, secondo il Dipartimento di Stato, 130 addestratori dell’esercito locale: possibile dunque che nessuno abbia informato Washington che il carissimo alleato georgiano si stesse muovendo? E ancora, molti ricordano una sequenza significativa: il primo luglio mille marines Usa hanno partecipato a manovre congiunte con le forze georgiane in una operazione battezzata «Operation Immediate response 2008», conclusasi solo 10 giorni prima della invasione russa. Una coincidenza? Lucia Annunziata