La Stampa, 10/8/2008, 10 agosto 2008
FERRUCCIO SANSA
TORINO
«Grandi architetti, attenti a non essere usati come foglie di fico per le grosse operazioni immobiliari». Antonio Monestiroli, preside della facoltà di Architettura del Politecnico Bovisa di Milano, non è l’unico a dare voce a un dubbio diffuso. Che all’inizio si poteva appena sussurrare per non essere tacciati di provincialismo o di lesa maestà nei confronti dei bei nomi dell’architettura. Le archistar, per usare un neologismo insieme scintillante e irritante. Ormai non c’è città che non abbia un mega-progetto delle stelle dell’architettura contemporanea: Milano, dove una volta c’erano i padiglioni della Fiera, avrà le tre torri griffate da Libeskind, Isozaki e Hadid; Savona si è rifatta il look affidandosi a Bofill e Fuksas. Rimini promette di cambiare volto al suo lungomare con i progetti di Foster, Nouvel e de Smedt.
I nomi sono quasi sempre gli stessi. Come una squadra di calcio. E infatti eccoli, ritratti in una fotografia, tutti insieme all’Eliseo con il presidente Nicolas Sarkozy che li ha chiamati a raccolta. Perché l’archistar è, o dovrebbe essere, garanzia di qualità. Di modernità.
«L’opinione pubblica ha bisogno di celebrità, di figure simboliche. Dopo le stelle del cinema, dopo le popstar, adesso tocca ai grandi architetti», sorride Fabrizio Gallanti, critico della rivista «Abitare» e professore di progettazione architettonica al Politecnico di Milano. Già, ma qui non è in discussione la figura dell’archistar. Qui il discorso è più concreto: ci sono i musei, gli aeroporti, insomma, le grandi opere pubbliche griffate. Va bene. Ma poi gli architetti di grido mettono la loro firma su una serie interminabile di operazioni immobiliari. «Una firma che porta ricchissime entrate e mette un sigillo autorevole su operazioni altrimenti discutibili», conferma Massimiliano Fuksas, architetto italiano di fama mondiale (nella foto di gruppo è a un passo da Sarkozy). Che è stato lui stesso oggetto di critiche per progetti che cambieranno il volto delle nostre città. Uno per tutti, la torre sghemba, alta oltre cento metri che si innalzerà sul centro di Savona: «Il danno era già stato fatto, quell’area era edificabile. Io ho cercato di progettare un intervento di qualità», sostiene Fuksas.
Ma quanto frutta a un architetto di fama firmare una grande operazione immobiliare? «Anche il dieci per cento», Fuksas non si sottrae alla domanda. Insomma, si può arrivare a molte decine di milioni di euro. Ma Fuksas aggiunge: «A me non sembra scandaloso il dieci, anche il venti per cento per un grande architetto e per un progetto di valore. Se Frank Lloyd Wright avesse preso il trenta non avrei avuto niente da dire. Ma ci sono architetti che si arricchiscono con progetti di bassissima qualità, realizzati senza la minima cura».
Già, la qualità. E soprattutto il rapporto con il paesaggio: «Noi difensori del paesaggio non abbiamo certamente l’autorità per giudicare le opere in senso assoluto, ma possiamo osservare come tali opere, anche quando si tratti di pregevoli saggi di architettura contemporanea (assai rari per la verità), facciano a pugni con il paesaggio», ha scritto Mario Fazio, giornalista e storico presidente di Italia Nostra. Era il 1959, ma quelle parole sono ancora attuali. Chi risponde a quella domanda che ci arriva da cinquant’anni fa? Qualcuno, come l’assessore alla Cultura del Comune di Savona, Ferdinando Molteni, ha liquidato gli oppositori alle nuove costruzioni definendoli «paladini della storia immobile». Eppure la questione si sta imponendo. Nell’opinione pubblica che - a Milano come a Savona o a Rimini - ha suscitato accese discussioni. Ed ecco allora siti internet, dibattiti, sit-in. Dove non intervengono i partiti e gli enti pubblici che approvano i progetti, si fanno sentire i movimenti spontanei.
Ma anche il mondo culturale solleva il problema. Franco La Cecla, antropologo già collaboratore di Renzo Piano, è uno dei più accesi critici delle archistar: «Ci sono firme che da sole giustificano operazioni immobiliari assolutamente non necessarie. Insomma, un grattacielo griffato viene approvato, mentre se fosse opera di uno sconosciuto dovrebbe passare un vaglio molto più severo», attacca La Cecla. Che rincara la dose: «Gli architetti hanno una grande responsabilità pubblica. I loro progetti cambiano la vita delle persone. Eppure ci sono opere che stravolgono le nostre città e che sono sottratte a qualsiasi dibattito pubblico. E purtroppo le star dell’architettura, mettendo la loro firma in cima al progetto, lo legittimano».
Gli architetti contro tutti? No, anzi. Anche tra i progettisti cominciano a diffondersi dubbi. un discorso complesso, che va oltre le forme architettoniche e tira in ballo grandi temi, come l’ambiente, appunto, ma anche la responsabilità sociale di chi progetta i luoghi in cui si svolge la vita: «Certo, c’è un uso strumentale dei grandi nomi», è d’accordo anche Stefano Boeri, architetto, urbanista e direttore di «Abitare». Ma cerca di distinguere: è vero, il grande nome può anche essere un cavallo di Troia per superare le opposizioni. La questione, sostiene Boeri, è però più complessa: «L’utilizzo di un architetto noto è un vero e proprio ”turbo” per raccogliere i fondi. Attira imprenditori e risorse. Magari per realizzare un’opera che merita». E ancora: «L’architetto conosciuto con la sua firma manda un messaggio politico e culturale, garantisce, di solito, la qualità dell’opera». Infine: «Chi si affida alle star dell’architettura entra in un circuito di città». Un caso da manuale: Bilbao, rinata con il Guggenheim Museum progettato da Frank O. Gehry. Ma anche gli errori (orrori) non mancano. E lo stesso Boeri aggiunge: «Se sbagli un grattacielo rischi di commettere un danno irreparabile».
«Ci sono molte opere di qualità, spesso gli architetti di nome garantiscono realizzazioni curate», tiene a distinguere Monestiroli. Ma se progetti tanto, a volte troppo, sbagliare non è poi così difficile. Soprattutto c’è il rischio di proporre - o riproporre - edifici completamente estranei al contesto. Prendiamo il grattacielo che il giapponese Isozaki ha progettato per Milano e che i suoi stessi colleghi dicono uguale a un altro costruito in Giappone. Prendiamo la torre di Fuksas a Savona che con i suoi centoventi metri di altezza incomberebbe sul porto e sulla Torretta, simbolo della città, alta appena venti metri. «Potrebbero essere a Milano come a Dubai», sostengono i critici. Non è soltanto questo il punto: c’è da considerare anche la variante del costruttore. Che chiama il grande architetto e, dopo l’approvazione, stravolge il progetto. Fatta la festa gabbato lo santo, direbbero a Napoli. Basta l’esempio del progetto per la ricostruzione del sito delle torri gemelle, dove l’idea - peraltro discussa - di Libeskind è stata approvata e poi stravolta. Ne sa qualcosa anche Renzo Piano che, a Genova, ha tolto la propria paternità alla cittadella tecnologica degli Erzelli. Già, il progetto cambia spesso in corso d’opera. E a rimetterci sono quasi sempre le aree verdi a vantaggio delle superfici residenziali. Piano e - pochi - altri hanno fatto un passo indietro. La maggioranza, invece, lascia la propria firma su progetti che vengono stravolti. «La verità - racconta Gallanti - è che i grandi architetti devono mantenere strutture enormi. Vere e proprie industrie. Così alla produzione di qualità si affianca quella che porta il denaro e consente di mantenere in piedi gli studi». E Fuksas, che nei suoi quattro studi sparsi per il mondo dà lavoro a centoventi architetti, ricorda: «Lo studio di Foster vale mezzo miliardo di sterline». Difficile tenere in piedi simili strutture progettando la villa sulla cascata, come fece Frank Lloyd Wright.
I grandi architetti devono saper dire di no. Devono avere il coraggio di rifiutare progetti che non tengono conto dell’interesse pubblico. Certo, non è facile, soprattutto quando sei all’inizio della carriera. Ma, se hai un nome e non hai bisogno di affermarti, bé, allora puoi dire di no. Hai il dovere di farlo». Renzo Piano è a Basilea, dove sta sorgendo un grattacielo alto centocinquanta metri. Diventerà un centro di ricerca. Parla e dietro di lui senti le voci degli operai. I rumori del cantiere. «Sono venuto qui per controllare un giunto, un giorno intero per un dettaglio, lo so, ma gli architetti devono fare così».
Gli architetti devono dire di no. Ma lo fanno? Le è mai capitato?
«Sì. Ho visto molti colleghi opporsi alle pretese dei clienti. Noi, con il nostro studio, ogni anno rinunciamo a due, tre progetti. Meglio lavorare meno, ma essere fedeli al proprio spirito».
Eppure in molti criticano la sudditanza degli architetti agli imprenditori immobiliari...
«Qualcuno pensa che la professione dell’architetto possa essere simile per esempio a quella dell’avvocato: il cliente ti paga e tu devi fare il suo interesse. Ma non è così. L’interesse di cui l’architetto deve tenere conto è quello pubblico, della città. Un po’ come accade, o dovrebbe accadere, per i politici. Noi abbiamo una responsabilità nei confronti degli uomini che nei palazzi e nei luoghi che progettiamo dovranno vivere. Chi agisce diversamente getta un’ombra sulla nostra professione. Tradisce i cittadini che si fidano degli architetti famosi e si aspettano un progetto che migliori la loro vita».
Appunto. Gli architetti tengono abbastanza in considerazione l’opinione di chi vivrà nei loro progetti?
«La critica è fondamentale. In Inghilterra esiste una forma di consultazione dei cittadini, si chiama ”public inquiry”. stata essenziale per realizzare il grattacielo alto 320 metri che stiamo costruendo vicino alla Torre di Londra».
Ma in Italia architetti e amministratori tengono nella stessa considerazione i rilievi degli abitanti?
«La discussione è essenziale. Meglio se è decisa, dura, perfino irritante. Ma un architetto deve saper modificare il proprio progetto. Per me, per il grattacielo che ho disegnato per Torino, le critiche sono state importanti. Mi hanno dato idee. Hanno, credo, migliorato il progetto».
Ma allora quale ricetta suggerirebbe agli architetti che firmano progetti con troppa facilità?
«Ricette non ne darei mai. Parlo per me. Contano molto le radici educative: io ho studiato prima del ”68, al Politecnico di Milano. Quelli sono stati anni molto formativi, che ci hanno abituato al dibattito e alla critica. Al senso di responsabilità. Ma non solo: pesano anche le origini. Noi genovesi abbiamo una naturale propensione per la prudenza, che è diversa dalla diffidenza. Spinge a valutare le conseguenze delle proprie azioni».
Ma un consiglio, uno solo, agli architetti?
«A tutti, anche a me stesso. Bisogna avere il coraggio di dire di no. Non è solo il cliente che sceglie l’architetto, ma anche il contrario. Bisogna prendersi sei mesi di luna di miele, quello che si chiama lo ”studio di fattibilità”. Se capisci che il cliente ha idee diverse dalle tue, puoi provare a far valere le tue ragioni, quelle pubbliche, ma se non va... rinuncia. Se sbagli un grande progetto, soprattutto un grattacielo, rischi di rovinare una città per sempre».
E i cittadini come possono partecipare ai progetti?
«L’architettura è l’arte di tutti. Ed è un’arte ”imposta”, perché a differenza della musica e della letteratura, per fare un esempio, cambia la vita di tutti. Anche di chi non se ne interessa. Quindi il mio consiglio è la partecipazione. Bisogna far sentire la propria voce a chi progetta»./
In tre anni Rimini ridisegnerà il proprio lungomare. E per farlo si è affidata a tre archistar: Norman Foster, Jean Nouvel e Julien De Smedt. Un’operazione da 200 milioni di euro che ha raccolto consensi, ma anche critiche: «Troppo cemento», attacca l’opposizione di centrodestra. Il progetto prevede una nuova Rimini avveniristica: tappeti di onde di vetro, migliaia di posti auto interrati, un polmone verde, ma anche un grattacielo alto oltre cento metri che, secondo alcuni, «rischia di schiacciare lo storico Grand Hotel e il faro. Questa è una Rimini per turisti, che dimentica gli abitanti». Il vice-sindaco, Maurizio Melucci (centrosinistra) ribatte: « il salto di qualità per attirare il turismo medio-alto».
Sarà il Central Park di Milano», aveva detto l’allora sindaco di Milano, Gabriele Albertini, presentando il concorso per l’area della ex Fiera. Alla fine, dopo concorsi e ricorsi, ha vinto il progetto di Zaha Hadid, Arata Isozaki, Daniel Libeskind e Pier Paolo Maggiora. Alle loro spalle c’è la cordata City Life che segna il definitivo ritorno sulla scena immobiliare milanese di Salvatore Ligresti. Il progetto prevede tre grattacieli di 220, 190 e 170 metri, poi ampi spazi residenziali e due musei. Ma i residenti della zona lottano contro il progetto: «Tra i tre finalisti era quello che destinava meno spazio al verde. Sono previsti 293mila metri quadrati di nuove costruzioni. Di questi ben 148mila sono destinati alle nuove residenze», sostiene Michele Sacerdoti, membro di uno dei comitati nati per contrastare il progetto. E aggiunge: «Quei grattacieli getteranno ombra su tutto il quartiere. E poi uno dei tre è stato ”copiato” da una torre progettata per una città giapponese. Milano ha perso un’occasione irripetibile».
La Liguria è il paradiso degli architetti grandi firme. Savona, soprattutto, dove sono all’opera Ricardo Bofill, Massimiliano Fuksas e Mario Botta. Il centro delle operazioni è il porto antico. Qui, a due passi dalla Torretta simbolo della città, Bofill ha realizzato un grattacielo alto 65 metri (in parte ancora disabitato) e una costruzione di vetro e cemento: 180 metri di lunghezza per sette piani di altezza, proprio accanto alla fortezza del Priamar. Il grattacielo di Fuksas attende l’approvazione: il progetto prevede una torre sghemba alta 120 metri, proprio all’ingresso del porto. Botta ha disegnato quattro torri alte 60 metri nell’area che era delle Ferrovie. Bloccate, per ora, le quattro torri firmate da Guillermo Vasquez Consuegra per Albenga.