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 2008  agosto 10 Domenica calendario

GUERRA IN OSSEZIA

SECONDO GIORNO
DAI GIORNALI DEL 10/8/2008
LA STAMPA
DALL’INVIATO A TBILISI EMANUELE NOVAZIO
Il presidente georgiano Mikhail Saakashvili proclama lo stato di guerra - subito confermato dal parlamento di Tbilisi - e mentre sono sempre più numerose le località in territorio georgiano a subire i bombardamenti dei caccia russi (fra queste Gori, nota per aver dato i natali a Stalin, nei dintorni della quale si trovano alcune basi militari, fra cui una costruita secondo i parametri Nato) rischia di esplodere anche l’Abkhazia, dove i separatisti annunciano un’offensiva di terra e aerei russi, secondo fonti locali, avrebbero compiuto ieri numerosi raid.
Se la situazione resta confusa, per le dichiarazioni contraddittorie delle parti in conflitto, di certo la crisi georgiana si fa sempre più drammatica e incendiaria. Dopo aver proclamato lo stato di guerra, Saakhasvili - il cui Paese ha una forza bellica insignificante se paragonata a quella russa - ha rivolto un appello al collega russo Dmitry Medvedev per un immediato cessate il fuoco e la ripresa delle trattative. Ma la risposta del Cremlino è stata netta: prima le truppe georgiane devono ritirarsi dall’Ossezia del Sud. «Imporremo la pace», afferma Medevedev per il quale gli attacchi georgiani hanno provocato «migliaia di morti».
Nella notte è attesa a Tbilisi una delegazione americana, dell’Unione Europea e dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. E ieri la presidenza di turno francese dell’Unione ha esortato Mosca a «rispettare l’integrità territoriale georgiana», paventando altrimenti il rischio di un deterioramento delle relazioni. Ma voci non confermate parlavano, ieri a tarda sera, di nuovi violenti combattimenti intorno a Zkhinvali, la capitale della regione ribelle che secondo fonti russe, smentite da fonti georgiane, sarebbe definitivamente caduta. Per segnalare la determinazione del Cremlino, ieri Vladimir Putin ha visitato Vladikavkaz, capitale dell’Ossezia del Nord, la repubblica autonoma russa dove stanno affluendo decine di migliaia di profughi. Il premier russo ha condannato duramente Tbilisi: «E’ difficile immaginare come, dopo quanto è successo, sarà possibile confermare l’Ossezia del Sud come parte dello Stato georgiano».
Mosca, comunque, insiste che le operazioni in corso non sono rivolte contro Tbilisi: nonostante i suoi aerei abbiano bombardato anche centri al di fuori dell’Ossezia del Sud, cercando di colpire fra l’altro gli oleodotti che portano il petrolio dal Caspio, e il porto coi terminal petroliferi di Poti, danneggiando gravemente un aeroporto militare poco lontano da Tbilisi, oltre a provocare vittime civili a Gori (si parla di una sessantina di morti, la popolazione in preda al panico ha cominciato a fuggire). L’intervento russo, sostengono Putin e Medvedev, è motivato dalla necessità di difendere le forze russe di interposizione. In realtà la strategia del Cremlino sembra mirare a indebolire in modo irreversibile la posizione di Saakashvili, e a regolare contemporaneamente i conti aperti con l’Occidente dopo l’indipendenza concessa al Kosovo e l’avvicinamento della Georgia alla Nato. Per questo anche ieri Mosca ha inviato nuovi rinforzi in Ossezia, paracadutisti e uomini degli «spetnaz», i reparti speciali.
Su questo sfondo, le voci si rincorrono. L’agenzia russa Interfax parla di armi Nato in viaggio a bordo di camion verso l’Ossezia del Sud, e di navi con a bordo militari turchi vicine alle acque territoriali georgiane. Si parla anche di un presunto ultimatum russo a Tbilisi che scadrebbe nella notte, pena il bombardamento della capitale, che per il momento invece è tranquilla. Navi russe, infine, starebbero dirigendosi verso il porto di Poti.
Secondo l’ambasciata italiana i circa 200 connazinoali presenti in Georgia (una ventina i residenti stabili) stanno bene, ma si starebbe pensando a un piano di sgombero via terra, attraverso l’Armenia, se la situazione dovesse precipitare.

3Professor Silvestri, chi ha violato il diritto internazionale?
«E’ una bella storia: in teoria la Georgia ha la sovranità per ristabilire l’ordine in Ossezia del Sud, però esistono risoluzioni Onu e Osce che indicano soluzioni negoziali, e sulla cui base sono presenti in Ossezia, come pure in Abkhazia, truppe russe».
E per questo Putin sostiene di fare in Georgia peacekeeping secondo le regole Onu...
«Quello russo mi pare più peace-enforcing... Ma il punto è che ci sono stati incidenti di frontiera, i georgiani hanno accusato i russi di aver penetrato il loro spazio aereo, e c’è stato un aumento di profughi: su questa base, i georgiani sono intervenuti pensando di avere la possibilità di riprendersi il territorio con un colpo di mano. Che non è riuscito. difficile dire chi ha ragione e chi ha torto: i georgiani sostengono di essere stati provocati, i russi difendono Ossezia e Abkhazia che ritengono loro protettorati».
C’è il precedente del Kosovo?
«Non vale, anche se lì la Nato intervenne senza mandato Onu, perché in Kosovo c’era pulizia etnica, che è una forte giustificazione». (A.R.)

LA STAMPA - EMANUELE NOVAZIO
L’appuntamento è in un cortile chiuso da case calcinate, nascosto al viale da un androne in apparenza cieco. L’uomo che poco prima - seduto sulla scalinata stinta del palazzo presidenziale affacciato sulla prospettiva Rustaveli - parlava con indifferenza ostentata della «guerra invisibile» come dell’episodio di un romanzo che non invita alla lettura, adesso si muove a scatti, fra le pietre sconnesse del cortile dove un platano si appoggia a un pergolato. E’ la sera del giorno più difficile e drammatico, in Georgia, da quando le truppe di Mosca hanno invaso l’Ossezia del Sud per ricacciare i soldati inviati da Tbilisi: il giorno della proclamazione dello stato di guerra, il giorno degli attacchi a Gori - la città che nessuno qui vuole più collegare a Stalin - dell’appello all’Occidente del presidente Mikhail Saakashvili, delle voci che si rincorrono e si amplificano sulla presa di Zkhinvali, la capitale della provincia ribelle che - a dar retta a tutti - sarebbe contemporaneamente nelle mani degli osseti del Sud, dei georgiani e e dei russi, e sarebbe stata distrutta e invece no, ha danni limitati.
L’uomo, che chiede di essere chiamato Zurab, apre una porta sul fondo del cortile: l’insegna dell’Internet cafè è sbiadita, il legno qua e là è marcio. Ma, all’interno, lo stanzone è pulito, ordinato. E affollato: una trentina di persone che non fanno caso all’intrusione, non parlano e non si guardano fra loro. Solo ogni tanto qualcuno si rivolge al vicino, con un tono soffocato ma che si intuisce greve di rabbia. In grande maggioranza queste persone sono anziane: non hanno mai usato un computer, prima d’ora, ma adesso il terminale è il loro legame con la guerra che il presidente ha appena proclamato e il parlamento ha subito approvato. Una guerra che a Tbilisi non si vede e non si sente, ma che sta stringendo il resto del Paese in una morsa. Che potrebbe spegnersi domani o diventare il nuovo incubo del mondo.
Nessuna delle persone portate nello stanzone dall’uomo che si fa chiamare Zurab ha la tv: davanti ai cinque schermi di computer, cinque ragazze fanno scorrere per loro immagini e video scaricati dai siti di giornali e televisioni di tutto il mondo. Immagini riprese in Ossezia del Sud e in Georgia, a Gori, nel porto di Poti. Immagini agghiaccianti: una donna anziana e sovrappeso stesa nel suo sangue con le gonne rialzate e il viso devastatato, i denti scoperti nella morte; un uomo giovane che urla di dolore davanti al cadavere del figlio; un ragazzo che le gambe spezzate fanno sembrare un burattino. Fiamme che sembrano esplodere dalle finestre di uno dei tanti prefabbricati kruscioviani degli anni ”60 che rendono ancora più tristi le città ex-sovietiche. E poi ancora carri armati georgiani incendiati e distrutti, aerei russi abbattutti, e un pilota russo che la scritta in sovraimpressione nomina come il colonnello Igor Leonidovitch, prigioniero, scortato da due soldati verso Tbilisi per venire interrogato.
Zurab spiega che l’idea gli è venuta parlando con sua madre. Sentiva alla radio le notizie degli attacchi, dei morti fra i civili, della guerra che cresceva e si espandeva: ma non riusciva a capire fino in fondo che cosa stesse davvero succedendo, al suo Paese. Allora si è ricordato dell’Internet cafè: ne ha parlato a un gruppo di amici più giovani di lui, ha convinto la cooperativa proprietaria a cederglielo per alcune ore al giorno. E, come se si trattasse di vendere un qualsiasi prodotto, è passato casa per casa per rendere visibile la guerra invisibile a Tbilisi. Si è rivolto prima agli amici della madre, poi agli amici di questi amici e via così.
Adesso, dopo tre giorni di combattimenti sempre più diffusi e più violenti in aree sempre più vaste dell’Ossezia del Sud e del resto del Paese, Zuran riempie la stanza anche quattro volte al giorno, una mezz’ora alla volta. Alla fine nessuno è disponibile a parlare: perché non si fidano dello straniero, o perché davvero non si sentono di dirgli nulla, preferiscono parlarsi fra di loro e tutti in georgiano: nessuno usa il russo, anche se quasi tutti lo conoscono d’ufficio. Una donna anziana che la pinguedine fa sembrare zoppa è l’unica a rispondere all’invito: ma più che parole sono lacrime, le sue, non si capisce che cosa indichi con quel suo dito all’aria e a chi rivolga le lacrime che più lei si agita più scendono.
E’ buio fitto, ormai, quando lo stanzone si svuota. Zurab, che ha 43 anni e che di mestiere fa il magazziniere, dice che quando tutto finirà sfrutterà l’idea per fare soldi, anche se non sa ancora in che modo riuscirà ad adattarla e a che pubblico si rivolgerà, «dopo la guerra». Per adesso va bene così, perché «è assurdo che una guerra che potrebbe soffocarci non la si veda», dice uscendo dall’androne. Più avanti, verso il palazzo presidenziale, un riquadro bianco e blu illumiminato a cura del governo avverte che «il primo obiettivo della politica estera georgiana è l’adesione alla Nato». E’ lì da molto tempo, ma adesso significa di più.
E’ tardi, ormai, ma dalla vicina chiesa ortodossa di Kvashveti, dove vicino è parcheggiata una Nissan bianca delle Nazioni Unite, esce una coppia di sposi seguita da un piccolo gruppo di invitati. L’abito bianco di lei è a strascico, lui veste in nero, gli invitati hanno scelto colori smorti e, le donne, cappellini sobri. La cerimonia è stata rinviata più volte, racconta la madre di Guranda, perché un testimone abita poco a sud di Gori e la strada è rimasta interrotta per ore a causa dei bombardamenti. Anche i telefoni hanno funzionato a singhiozzo per via della guerra, nel pomeriggio, e del testimone si erano perse le tracce.
Ma adesso che lui è arrivato «è tutto a posto», garantisce la madre di Guranda. Anche se siete in guerra? «Per ora, almeno, a Tbilisi non la vediamo».

LA STAMPA - MAURIZIO MOLINARI
George W. Bush scende in campo nella guerra del Caucaso e si schiera dalla parte della Georgia chiedendo a Mosca di «interrompere tutti i bombardamenti» perché l’escalation di violenza «mette a rischio la pace nella regione».
La crisi militare ha fatto irruzione nell’agenda del viaggio olimpico sin da venerdì notte quando, dopo aver lasciato la cerimonia di inaugurazione dei Giochi verso le 23, il presidente Usa ha convocato un summit audio-video con il Segretario di Stato Condoleezza Rice e il consigliere per la sicurezza nazionale Steven Hadley, ripetuto poi ieri mattina con lo stesso Hadley e John Negroponte, vice della Rice ed ex zar dell’intelligence. Il risultato è stata un’offensiva di passi americani in più direzioni. La Rice, il ministro della Difesa Robert Gates e il capo degli Stati Maggiori Congiunti Michael Mullen hanno chiamato i rispettivi interlocutori a Mosca e Tbilisi recapitando un comune messaggio riassunto da un comunicato del Dipartimento di Stato: «Un conflitto armato non è nell’interesse di nessuno, basta attacchi, è il momento del cessate il fuoco».
Ma a mezzogiorno gli scontri armati fra georgiani e russi continuavano - minacciando di investire anche i circa 200 istruttori militari Usa presenti nelle basi di Tbilisi - e allora Bush ha preso l’iniziativa di chiamare di persona tanto il presidente russo Medvedev che quello georgiano Saakashvili per «reiterare la posizione degli Stati Uniti». Poco più tardi è stato lo stesso presidente Usa a svelare di cosa si tratta, trasformando una sala dell’hotel Westing Chaoyang - dove soggiorna con la delegazione - in una sorta di mini-Casa Bianca. Con la bandiera Usa alle spalle, Bush si è presentato di fronte ai reporter e ha letto un breve ma esplicito testo scritto che schiera Washington dalla parte di Tbilisi. «Sono preoccupato, la situazione è molto seria», ha esordito, sottolineando che «gli attacchi avvengono in regioni della Georgia lontano dalle zone di conflitto nell’Ossezia del Sud» e dunque «comportano una pericolosa escalation della crisi che minaccia la pace regionale». Come dire: le truppe russe hanno lanciato un attacco generalizzato alla Georgia, non giustificato.
Su come porre termine alla crisi, Bush dice che «può avvenire pacificamente» partendo dal fatto che «la Georgia è una nazione sovrana la cui integrità territoriale deve essere rispettata». Da qui la richiesta di «uno stop immediato a tutte le violenze e a tutte le truppe per ritornare allo status quo pre-6 agosto» con l’accento però sulla «fine dei bombardamenti russi». In concreto significa chiedere all’alleato georgiano di fermare le operazioni in Ossezia del Sud e a Mosca di rispettare la sovranità di Tbilisi. «Stiamo lavorando con i nostri partner europei - ha terminato Bush - per lanciare una mediazione internazionale e far ripartire il dialogo». Il forum che Bush vuole attivare rapidamente è il gruppo «Amici della Georgia» creato all’Onu da Usa, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania (l’Italia ne vorrebbe fare parte).
La crisi però non è facile da risolvere perché Medvedev ha detto a Bush che cesserà gli attacchi solo dopo il ritiro georgiano dall’Ossezia mentre Saakashvili vuole ripristinare la sovranità sulla regione a maggioranza russa e preme sugli Usa parlando di «immediato ritorno» dei circa duemila soldati schierati in Iraq. Dietro la posizione Usa c’è la convinzione di Bush e della Rice che Mosca sia responsabile della crisi a causa del sostegno ai secessionisti dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia, dove mantiene truppe pur essendosi impegnata a ritirarle col Trattato Osce firmato a Istanbul nel 1999. La Casa Bianca vede in queste mosse il disegno russo di ostacolare il processo di adesione della Georgia alla Nato, che potrebbe partire entro fine anno.

LA STAMPA - ANNA ZAFESOVA
Le bombe russe che piovono sulla Georgia in queste ore minacciano di distruggere non solo il fragile equilibrio geopolitico sulle rovine dell’ex’Urss, ma di sconvolgere anche quel nuovo Grande Gioco energetico che ormai da anni viene condotto nel Caucaso e in Asia. Ieri i caccia bombardieri russi avrebbero colpito l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (Btc), mancandolo. La notizia è stata data ieri dal primo ministro georgiano Lado Gurgenidze, ma il condizionale per ora resta d’obbligo, considerata la scarsissima attendibilità delle contraddittorie informazioni che giungono dal Caucaso. Ma che si si fosse trattato di un attacco deliberato alle infrastrutture del Btc, di un bombardamento «casuale» o addirittura di un falso allarme, resta il fatto che a rischio, in queste ore, c’è anche la partita energetica globale, nella quale la Georgia non era solo una pedina.
Completamente sprovvista di risorse energetiche proprie, tanto da rimanere per anni al buio e al freddo a causa del razionamento, la repubblica caucasica però è in una posizione geografica che la rende strategica: un lembo di terra tra il mar Caspio e il mar Nero, l’unico transito possibile per il petrolio asiatico verso l’Europa che non passi dalla Russia, unica falla in quello che altrimenti Mosca - tra produzione propria e «gestione» logistica delle risorse altrui - potrebbe considerare un monopolio sulle risorse. E proprio in questo «corridoio», nonostante l’opposizione della Russia, si è infilato il Btc, inaugurato dopo mille polemiche due anni fa, e gestito da un consorzio internazionale dove il socio leader e la British Petroleum, e tra gli altri ci sono la Total, la ConocoPhilips e l’Eni (con il 5%), ma nemmeno un russo. Lungo oltre 1.770 chilometri, ha capacità di un milione di barili al giorno, circa l’1% della produzione mondiale: un’arteria chiave per pompare petrolio azero verso la Turchia e il Mediterraneo. E anche una via di fuga potenziale per gli altri partner di Mosca, come il Kazakhstan che oggi pompa il suo greggio attraverso le varie pipeline russe, più a nord, ma che non esclude di potersi affrancare dal monopolio del Cremlino, insieme ad altri protagonisti di un’area che contiene le maggiori riserve petrolifere dopo il Golfo Persico e la Russia.
Si capisce perché il Btc, ancora nella fase progettuale, apparve nel film di 007 «Il mondo non basta», nel quale una cattivissima e affascinante Sophie Marceau complottava per ottenere il potere assoluto attraverso il suo oleodotto. Le alternative russe, come il Baku-Novorossijsk che disgraziatamente passava in territorio ceceno - e a Mosca, negli anni ”90 come adesso resta popolare la teoria che il separatismo di Grozny venne fomentato da «forze esterne» (leggi gli americani) che tifavano per il Btc - o l’oleodotto del Caspio (Ktk) che trasporta il greggio dalla kazaka Tenghiz attraverso i territori più a nord, che offrono una maggiore sicurezza essendo etnicamente russi, non hanno potuto battere la concorrenza. L’oleodotto georgiano, infatti, ha il grande pregio di sfociare non nel mar Nero, bacino chiuso dal quale poi il petrolio deve uscire principalmente via nave, attraverso il Bosforo, ma nel porto turco di Ceyhan, sul Mediterraneo, a due passi dai consumatori finali europei. Non è un caso che il ministro georgiano per l’Economia, Ekaterina Sharashidze, ha voluto ieri attirare l’attenzione del mondo ricordando che con le sue bombe la Russia «ha preso di mira anche obiettivi di proprietà internazionale».
Un grande gioco al quale partecipano un po’ tutti, inclusi anche i separatisti curdi del Pkk che qualche giorni fa avevano già bloccato l’oleodotto Btc nella sua parte turca, facendolo esplodere. Considerato l’enorme rischio politico di quella regione incandescente, per la maggior parte del tragitto le tubature erano state interrate, anche a costo di aumentare le spese. Ma ora che sopra i 249 chilometri della pipeline - che in alcuni punti si avvicina al territorio dell’Ossezia del Sud di soli 55 km - volano caccia bombardieri, una bomba, caduta più o meno «per caso», potrebbe esplodere nelle borse petrolifere di mezzo mondo.

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