Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  agosto 10 Domenica calendario

DAL NOSTRO INVIATO

ADRIA (Rovigo) – «Mamma vado a farmi una doccia». La voce è tranquilla, sulle labbra un sorriso accennato, e la ragazza sale al piano di sopra. Ha detto una bugia, i suoi pensieri sono altri.
Terribili. Ha deciso di farla finita. In pochi minuti la tragedia è consumata. Il tempo di aprire la cassaforte, prendere la Beretta di papà, caricarla e premere il grilletto. Un colpo al cuore. Il proiettile la trapassa e va a conficcarsi nell’anta del mobile dello studio. Si è uccisa così, alle 11 di venerdì sera. Morta all’istante. Avrebbe compiuto diciassette anni tra pochi giorni. Non ha lasciato messaggi per spiegare il suo gesto. Follia improvvisa? No. L’inquietudine che si portava dentro da molti mesi, più precisamente quel «fatto» che lei cercava di superare – e a volte le pareva di esserci riuscita – ora diventa il filo rosso che collega la vita alla morte. Sullo sfondo del suicidio, infatti, c’è un’inchiesta che coinvolge alcune decine di persone, indagate per detenzione di materiale pedopornografico. Ma occorre tornare indietro di un paio d’anni per raccontare il dramma della liceale di Adria, che nasce, ultima di tre figli, in una stimata famiglia della media borghesia di provincia: il padre è un libero professionista, la madre fa l’impiegata.
Lei, quattordicenne, è una ragazza carina, con gli occhi castani che brillano in un viso affilato. Carina e innamorata. Gli amori dei tempi d’oggi, si sa, sono precoci. Talvolta imprudenti. Succede, dunque, che le effusioni intime della minorenne di Adria con il fidanzatino di allora si trasformino in un gioco di immagini. «Perché non ci riprendiamo? », è la proposta di lui. Detto, fatto. Due minuti di ripresa con il videofonino. il loro piccolo segreto. Destinato, invece, a diventare il principio della fine. Alla rottura del rapporto, infatti, il giovanotto si vendica nel modo più spudorato e crudele: inviare agli amici il suo film con la «performance di coppia». Poi, le immagini proibite passano di video in video finendo sui computer di una schiera di giovanotti di Adria e dintorni. Risultato? La ragazza è la «svergognata ». Il suo ex, un macho in vena di goliardia. Fino a quando, in seguito alla denuncia della vittima, non si muovono le forze dell’ordine e la magistratura inquirente.
Proprio in questi giorni, l’inchiesta stava per essere chiusa. Chissà, se con un rinvio a giudizio.
Bastano due anni per rimarginare una ferita profonda? La giovane ci aveva provato sul serio. Facendo una vita normale, trovando altre amicizie, frequentando con profitto la scuola e offrendosi come animatrice nel centro giovanile della parrocchia. I genitori le stavano vicino, i fratelli maggiori che, sulle prime, si erano caricati anche della vergogna di lei, scrutata con sguardi di rimprovero, si erano addolciti. Insomma, l’uscita dal tunnel era possibile. Anche se l’ottimismo a volte veniva inghiottito dai fantasmi del passato. Qualche mese fa – lo si apprende solo ora dai carabinieri – in uno di questi momenti no, la sedicenne aveva tentato di tagliarsi le vene. Venerdì sera il piano si è compiuto. I maschi di casa erano fuori, madre e figlia avevano chiacchierato in soggiorno. La mamma non ha sentito lo sparo. La scena di morte le si è parata davanti, improvvisa, orribile: la sua ragazza, a terra, in un lago di sangue. Ha urlato ripetutamente. Sotto, nella strada deserta, una guardia giurata ha udito le grida e ha chiamato subito il 113. Invano.
Marisa Fumagalli


MILANO – «Il fatto che avesse già tentato il suicidio è una spia importante, questo è ovvio. Purtroppo capita spesso. Si scopre che un giovane che si toglie la vita ci aveva già provato prima. Però...». Però? «La psiche umana è molto complessa. Sono tanti i fattori in gioco, troppi. Non conoscendo da vicino la vicenda esistenziale di questa giovane non si può stabilire un rapporto di causa ed effetto tra ciò che è accaduto quando aveva quattordici anni e quello che è successo adesso».
Anna Oliverio Ferraris è docente di Psicologia dello sviluppo all’università «La Sapienza» di Roma, ha scritto decine di libri, altrettanti tentativi di esplorare l’infanzia e l’adolescenza. Ma persino lei, di fronte al dramma di una ragazza non ancora diciassettenne, vorrebbe rimanere in silenzio.
«Riflettere su questa storia, sulla tragedia che ha colpito la famiglia – ripete ”, è molto complicato. Bisogna essere cauti». Ma di una cosa è piuttosto sicura: «In generale, il fatto che qualcuno si impossessi della nostra immagine, anzi di immagini che riguardano la nostra intimità, e che ne disponga come crede, questo può avere un effetto destabilizzante. Ci si vergogna molto. Ci si sente impotenti. Non si sa come difendersi. Qualcosa di simile potrebbe anche contribuire a creare una forma depressiva ». Tanto che, continua la psicologa, in casi del genere il consiglio degli esperti è «abbandonare almeno per qualche tempo il proprio ambiente, che è allo stesso tempo quello nel quale è maturata questa forma di violenza e quello dove si è più conosciuti. Andarsene via, può essere d’aiuto. Così come è più facile superare il trauma se il colpevole si pente e chiede scusa, mentre diventa molto più difficile se continuano le chiacchiere, gli scherzi, le allusioni».
Forse nessuno saprà mai perché si è uccisa, ma di sicuro a causa della violenza subita questa giovane donna aveva sofferto. Un malessere figlio di tecnologie che fino a poco fa non conoscevamo? «Ormai i ragazzi fotografano molto più di prima. Semplicemente per la maggiore disponibilità di tecnologia. E magari lo fanno per scherzo, con spirito goliardico, senza rendersi conto del danno che possono provocare. Per chi scatta la foto è un gioco, una cosa da ridere. Ma per la vittima può diventare un fatto molto grave».
Come sempre, dice la psicologa, non si tratta di difendersi da videofonini o computer. Il problema, semmai, è in chi li usa. «Bisognerebbe educare all’utilizzo di ogni tecnologia. Chi se ne serve dovrebbe sapere che in certi casi può finire per fare del male».
❜❜
Depressione Una vicenda così può contribuire a creare una forma depressiva Mario Porqueddu