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 2008  agosto 09 Sabato calendario

CAMPANELLA

CAMPANELLA Francesco Palermo 8 luglio 1972. Mafioso pentito. Fu braccio destro del boss di Villabate Nino Mandalà. Tra il 1994 e il 1998 presidente del consiglio comunale di Villabate (Udeur), mise tra l’altro un falso timbro del comune di Villabate sulla carta d’identità usata da Provenzano per andare in Francia a farsi operare (a spese della regione) alla prostata malata • «Ma tu dimmi come ci si potrebbe non fidare di un bravo ragazzo che la prima volta che lo incontri ti dice di essere amico di Casini, Cuffaro e Mastella. Che ti fa telefonare dallo stesso Clemente per garantire che non sta mentendo. Che va persino ad appendere i bigliettini degli studenti all’albero Falcone. Sì, proprio i pensierini della serie ”Giovanni non sei morto invano”, ”Giovanni e Paolo (Borsellino) forever”, ”Giov TVB”, ”Le loro idee camminano sulle nostre gambe” e via discorrendo. No, non si poteva non credere a Francesco Campanella. Troppo limpida la sua immagine, tanto pulita la sua faccia, meno brillanti le sue compagnie. Ma chi fa antimafia full time non sempre ha il tempo per accorgersi che ti prendono per i fondelli, che magari il presunto bravo ragazzo sta attuando un cinico disegno su disposizione e col permesso di alcuni dei capi della mafia. Perché in realtà, a pensarci bene, in pochi sono seri, nel fare antimafia, come i rappresentanti di Cosa Nostra. Cosa serve, perché un commerciante sia credibile? Che sia iscritto a qualche associazione antiracket? E sia, diceva il boss di Pagliarelli Nino Rotolo: fatelo iscrivere all’antiracket, chissenefrega, basta che continui a pagarci il pizzo. Rotolo questi editti li promulgava in segreto e senza sapere di essere intercettato; i politici che frequentavano e davano credito a Campanella, coinvolgendo prefetti, questori, comuni, rappresentanti delle istituzioni, giornalisti, agivano invece alla luce del sole, senza vergogna. E del resto, come facevano a sapere? E quanti ci cascarono? Cristina Matranga, ad esempio. Lei, ex retina di Leoluca Orlando, ex pasionaria passata poi nell’Udeur di Mastella e avvicinatasi, nel corso delle sue esplorazioni politiche anche a Forza Italia, a lungo scortata per le minacce ricevute, è andata in tribunale, a Palermo, a deporre e queste cose ha dovuto raccontarle in pubblico. Nell’incomprensibile silenzio dei media. Non è stata e non sarà la sola: nel dibattimento in questione, riguardante la realizzazione di un centro commerciale a Villabate, a due passi da Palermo, è stato chiamato a deporre anche Walter Veltroni. Dovrà scendere a Palermo pure Valerio Veltroni, fratello del cinefilo segretario del Pd. Sul banco dei testimoni dovrà andare poi l’attuale assessore regionale alla Sanità, Massimo Russo, che fino all’anno scorso aveva vestito i panni del pubblico ministero considerato di sinistra, per poi approdare prima al ministero della Giustizia, ai tempi di Mastella, e poi al governo siciliano con Raffaele Lombardo. Sono stati sentiti anche giornalisti di Repubblica, quotidiano chiamato – dal ”compagno” Paolo Pierfrancesco Marussig, uno degli imputati – a sostenere, con la propria edizione locale, l’iniziativa del centro commerciale, che a Villabate avrebbe dovuto portare pace e benessere. Così almeno recitavano gli slogan, condivisi tanto dalla mafia quanto dall’antimafia di facciata. Sotto questo aspetto, Palermo e la Sicilia si sono dimostrate giudiziariamente ingrate, perché il centro commerciale da trecento milioni (di euro) è ancor oggi nel libro dei sogni e i progetti di Marussig, deus ex machina della Asset Development di Roma, la società che avrebbe dovuto fare l’affarone, sono saltati tutti e sono oggetto del dibattimento, in corso in tribunale. Marussig, il manager, è imputato di concorso in associazione mafiosa, perché due colleghi dell’attuale assessore Russo, i pm Nino Di Matteo e Lia Sava, sostengono che dietro la Asset e Campanella c’erano la mafia e l’accordo che gli imprenditori romani avevano stipulato con i boss di Villabate, Nino e Nicola Mandalà, padre e figlio, per la gestione di una serie dei settanta negozi da installare nel megacentro e soprattutto per la riscossione del pizzo. Tra i Mandalà, il primo – il papà – tiene al titolo di ”presunto” capomafia, l’altro – il figlio – non tiene proprio a un bel niente perché colleziona condanne con accuse che vanno dall’omicidio al traffico di droga, alla cura della latitanza di Bernardo Provenzano. Latitanza alla quale diede un contributo – nemmeno insignificante – anche Francesco Campanella, che mentre appendeva i bigliettini dei ragazzi di Villabate al ficus magnolidea di via Notarbartolo, davanti al palazzo in cui abitava il giudice Falcone, metteva un falso timbro del comune di Villabate sulla carta d’identità usata da Provenzano per andare in Francia a farsi operare (a spese della regione) alla prostata malata. ”Conobbi Campanella nel 2002 – racconta Cristina Matranga – quando io ero vicepresidente nazionale dell’Udeur. Mi chiese un appuntamento al telefono, poi, dicendomi che era amico di famiglia di Mastella, mi disse che avrebbe voluto collaborare con me, far parte del mio gruppo politico. Ci incontrammo al bar Magnolia e subito mi fece i nomi di Casini, Cuffaro, Mastella. Ma il primo impatto non fu dei migliori. Perché faceva discorsi strani, aveva un modo di fare arcaico, diceva che ”la politica era potere’, voleva creare gruppi forti nel partito. Insomma, sembrava un vecchio democristiano. Io gli dissi: ”Sei un bravo ragazzo, ma io faccio volontariato e antimafia, probabilmente farai carriera in Sicilia, ma non con me’”. Parole che si rivelarono ben poco profetiche: ”Quel pomeriggio – prosegue l’ex seguace di Orlando – mi chiamò Mastella, dicendomi che era un bravo ragazzo. Ma a convincermi fu lo stesso Campanella. Dopo due giorni di silenzio mi chiamò e mi chiese scusa. Mi disse: ”Dammi la possibilità di conoscere la tua azione politica’. E da lì cominciammo a lavorare insieme”. Un lavoro serrato, nulla da dire: ”Ci vedevamo spesso. E so che si sentiva quasi quotidianamente con Mastella. La cosa mi dava anche un po’ fastidio. Perché Mastella, nonostante avesse me sul territorio, a volte chiamava più Campanella che me”. Campanella fu presidente del consiglio comunale di Villabate, tra il 1994 e il 1998. Era stato eletto col centrodestra, che nel paesone a un tiro di schioppo dal capoluogo dell’isola, all’epoca, faceva riferimento alla coalizione sponsorizzata dalla famiglia mafiosa dei Mandalà-Di Peri. Mentre il centrosinistra era appoggiato dal gruppo di potere (mafioso) opposto, quello dei Montalto. Vinse la cosiddetta destra, andò al potere il sindaco Giuseppe Navetta, di Forza Italia, ma il sindaco-ombra era quel Nino Mandalà trovato da Enrico Bellavia di Repubblica (testimone del processo) seduto alla scrivania del primo cittadino, mentre Navetta stava rispettosamente dall’altro lato del tavolo. Così stando le cose quando Mandalà padre fu arrestato una prima volta (Mandalà figlio lo era stato già nel 1995, ma era stato presto scagionato da un’assai seccante accusa di omicidio), il consiglio comunale fu sciolto per infiltrazioni mafiose. Campanella si riciclò come consulente e rappresentante dei comuni di Bagheria (centrosinistra) e Villabate (centrodestra) e fu allora che incontrò la Matranga. ”Un giorno mi portò a Villabate – dice l’ex dirigente dell’Udeur – e mi fece vedere un posto che somigliava allo Zen di Palermo. Mi fece impressione vedere quei ragazzini. Così Campanella mi chiese di aprire un osservatorio a tutela della legalità. Io ne parlai con il prefetto Renato Profili, col procuratore di Palermo dell’epoca, Piero Grasso, col questore e con il capo della Mobile, che allora era Beppe Cucchiara. A tutti loro dissi che c’era pure Campanella. E alla fine l’osservatorio si fece e la conferenza stampa di presentazione fu tenuta direttamente in prefettura”. in questo periodo che il trait d’union tra mafia e politica, come lo stesso Campanella si è definito da pentito, mette a segno il suo colpo più riuscito: la cittadinanza onoraria al Capitano Ultimo, il tenente colonnello Sergio De Caprio, e un convegno improntato all’antimafia più consunta con Raul Bova, che aveva impersonato Ultimo in una fortunata fiction trasmessa da Canale 5. L’iniziativa, ha spiegato il collaboratore di giustizia, era stata inizialmente malvista da Nicola Mandalà ma autorizzata ”dall’alto”, cioè da Bernardo ”Binnu” Provenzano, uno che, in Cosa Nostra, sapeva guardare come pochissimi altri al di là del proprio naso. ”La nostra attività insieme – è ancora la Matranga che parla – durò almeno sei mesi. Avevamo attivato numerosi progetti di legalità. Lui stesso raccoglieva i bigliettini scritti dagli studenti delle scuole e li andava ad appendere all’albero Falcone. Non avrei mai pensato che si trattasse di un mafioso. Lui stesso, anzi, un pomeriggio mi disse queste testuali parole: ”Sai, io nella mia famiglia ho un parente mafioso, un fratello di mia madre che non vedo dalla prima comunione. Ti prego, non allontanarmi da questo mondo dell’antimafia’”. E’ lo stesso periodo in cui, con il sindaco Lorenzo Carandino, Campanella ottiene un incontro con Massimo Russo, presidente dell’associazione magistrati per il distretto di Palermo, Agrigento e Trapani. Si mettono in cantiere altre iniziative antimafia, nessuna delle quali poi concretamente realizzata. Russo sostiene, da bravo pm, di avere fiutato il pericolo e di avere stilato una relazione di servizio per denunciare l’’avvicinamento” di cui era stato oggetto. E del resto questo è anche il periodo in cui la Fondazione Borsellino, presieduta sempre da Massimo Russo, veniva raggirata da un altro campione dell’antimafia delle cerimonie e delle commemorazioni, padre Giuseppe Bucalo, poi cacciato senza remore, dalla famiglia di Paolo Borsellino, quando vennero fuori i suoi interessi personali e i progetti di investimenti multimiliardari (in lire) col professore Gianni Lapis, nel 2007 condannato come riciclatore del patrimonio di don Vito Ciancimino. L’unico che aveva sempre diffidato del bravo ragazzo dalla faccia pulita è il diessino ”duro e puro” Beppe Lumia. ”Me lo presentò la Matranga – ha detto deponendo al processo – e quando capii chi era la persona che mi aveva presentato, la mortificai, la offesi. Le dissi che non doveva fare mai più una cosa del genere, che Campanella era un mafioso parente di mafiosi”. Versione che la Matranga in gran parte conferma. Solo tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004, quando il comune fu sciolto la seconda volta per mafia, secondo la tesi sostenuta dalla teste e sposata dalla difesa, si capì veramente chi fosse, questo Campanella. Ancora la Matranga: ”Dopo sei mesi arrivò una telefonata del prefetto Profili. Mi disse: ”Si dimetta immediatamente da Villabate’. L’indomani mi diedero la scorta e dopo un anno arrivò l’avviso di garanzia per Campanella. Sul momento nessuno mi disse niente. Io non ritenni opportuno chiedere spiegazioni e al mio gruppo dissi che la mia esperienza lì era finita”. L’accusa sostiene che i Mandalà avessero attrezzato una sorta di squadra di sensali, di mediatori, per ottenere i terreni da espropriare in vista dell’acquisizione delle aree su cui si sarebbe dovuto costruire il megacentro commerciale. Che ci fosse cioè un accordo diretto tra Marussig, sedicente uomo di sinistra, autodefinitosi amico di Valerio Veltroni e del conte Caracciolo di Repubblica, pronto ad arringare il consiglio comunale di Villabate, restio a dare il via libera a una colata di cemento su un’area di numerosi ettari, a poca distanza da un altro centro progettato (dalla famiglia mafiosa di don Giuseppe Guttadauro) nel quartiere palermitano di Brancaccio. Perplesso, ancora, il consiglio, sui personaggi che giravano attorno all’iniziativa. Raccontano i pm Sava e Di Matteo che i rappresentanti dell’assemblea cittadina furono convinti con una tangentina di pochi milioni di lire. Mentre, secondo la vulgata di Campanella, un diessino piuttosto recalcitrante, Giuseppe Mannino, fu indotto a più miti consigli addirittura da Veltroni, o da chi per lui. Circostanza che Mannino nega decisamente, così come Veltroni, chiamato a deporre dalla difesa ma ancora non salito sul banco dei testimoni. Gli agganci del gruppo Marussig-Mandalà- Campanella erano comunque solidi: ”A me – spiega la Matranga – Marussig l’ha presentato Giustino Fabrizio (ex capo della redazione di Repubblica a Palermo, ndr) a colazione in via Principe di Belmonte. Non ho capito il perché di quella presentazione in quel contesto. Mi si chiese di prendere a cuore il progetto (del centro commerciale, ndr). Ma io risposi che politica ed economia non dovevano camminare insieme e invitai quelli della Asset, se proprio volevano presentare il loro piano, a partecipare a un incontro pubblico previsto l’indomani. E il giorno dopo Marussig prese la parola davanti al consiglio comunale e ad altre istituzioni”. Per la difesa è lo spunto per contrattaccare, con l’avvocato Enrico Sanseverino: se i rapporti con Campanella, ex segretario nazionale dei giovani dell’Udeur, erano rapporti con la mafia, era difficile rendersene conto. Dice ad esempio Clemente Mastella, pure lui sentito come teste a Palermo: ”Con Francesco ho avuto rapporti di amicizia. Sono stato pure suo testimone di nozze, assieme a Totò Cuffaro. Se avessi avuto un minimo sospetto l’avrei allontanato. Anzi, era lui, quando scendevo a Palermo, a dirmi di stare attento a certe persone e a certe situazioni”. Insomma, tutti diffidavano, non vedevano e soprattutto non vedono di buon occhio Campanella. Specialmente dopo che si è pentito. Lo stesso ex presidente del consiglio comunale chiese scusa a Mastella, con una lettera spedita a mezzo di un emissario, mentre l’ex Guardasigilli era al raduno annuale estivo Udeur di Telese. Nessuno poteva sospettare di nessuno, a Villabate, paese in cui l’ex coordinatore cittadino del Cdu, oggi Udc, Nicola Notaro, è imputato di associazione mafiosa e sospettato di avere dato un contributo a un omicidio di altissima mafia, quello di Francesco Montalto, figlio del vecchio boss di Villabate Salvatore Montalto. Nessuno però è esente, in questa situazione paradossale. Perché Nino Mandalà era stato amico e socio (sia pure in tempi remoti e senza alcuna conseguenza giudiziaria) di Enrico La Loggia e Renato Schifani e ancor oggi c’è chi lo rinfaccia a entrambi. E Mandalà padre, dal carcere in cui è rinchiuso quasi ininterrottamente dal 1998, ricorda di avere costituito uno dei primi club di Forza Italia della Sicilia. Ma la sua brillante e nascente carriera politica fu tarpata sul nascere dalle accuse, mosse al figlio, di avere partecipato a un delitto. Nicola Mandalà fu poi scagionato da quell’omicidio e il genitore si lamentò a lungo di non essere stato reintegrato in politica e di non avere ricevuto solidarietà dai propri amici. Il paradosso finale di questa storia è che ancora una volta mafia e antimafia si sfiorano senza ritegno e pudore. Perché – lo ha raccontato ancora Campanella – il testimone che scagionò Mandalà dal delitto di cui era accusato era un poliziotto: fu lui a dire che mentre i killer uccidevano Simone Benigno (assassinato per errore) e ferivano la vittima designata, Pietro Salamone, Mandalà e l’altro presunto killer erano non a Belmonte Mezzagno, sopra Palermo, a impugnare le armi e a sparare all’impazzata, ma su una nave Tirrenia per Genova, a chiacchierare amabilmente con l’agente, pure lui in viaggio. Un alibi di ferro, inattaccabile. Peccato però, ha chiosato Campanella, che quell’alibi fosse del tutto fasullo: in cambio il poliziotto ottenne l’assunzione della figlia in una società che lo stesso pentito gestiva per i Mandala» (Riccardo Arena, ”Il Foglio” 9/8/2008).