Fabio Martini, La Stampa 8/8/2008, pagina 11., 8 agosto 2008
All’hotel Sheraton Parco de’ Medici - uno di quegli albergoni alla periferia di Roma dove da 15 anni partiti di destra e sinistra celebrano le loro eutanasie - l’assemblea nazionale di Alleanza nazionale stava dibattendo la prospettiva di sciogliersi e confluire nel berlusconiano Popolo della libertà
All’hotel Sheraton Parco de’ Medici - uno di quegli albergoni alla periferia di Roma dove da 15 anni partiti di destra e sinistra celebrano le loro eutanasie - l’assemblea nazionale di Alleanza nazionale stava dibattendo la prospettiva di sciogliersi e confluire nel berlusconiano Popolo della libertà. Ad un certo punto prende la parola il sindaco di Roma Gianni Alemanno, che lascia cadere un inciso: «Vedrete, ad uno dei prossimi Consigli dei ministri Giulio Tremonti annuncerà una misura sociale davvero molto importante...». Alemanno non dice di più, i ministri di An si guardano: ma che fa Gianni, si propone come «portavoce» di Tremonti? Poi intuiscono il messaggio: il sindaco di Roma oramai è oltre il vecchio giardino di An, fa squadra con il ministro dell’Economia. Era sabato 26 luglio e quel segnale, sfuggito ai più, in realtà era il primo di una serie di riposizionamenti trasversali in vista della nascita formale del Popolo della libertà. Un evento che dovrebbe consumarsi nel febbraio del 2009, attraverso la dissoluzione di Forza Italia, di An e dei tanti "bonsai" (il Nuovo Psi, il Pri, Giovanardi, la Mussolini, oltre alla Dc di Rotondi) destinati al fine a fondersi in un unico partito. Processo originalissimo quello che sta portando verso il Pdl. Un prototipo da far ingolosire politologi di mezzo mondo. Dietro al capo carismatico, che dal predellino ha deciso la Cosa, il nome della Cosa e ora vuole concretizzarla, si muovono pezzi di apparato (di Forza Italia e di An). Ma soprattutto ha preso forma qualcosa mai visto prima: due grandi aree trasversali, cordate politiche e di potere che fanno capo a Giulio Tremonti e a Gianni Letta. Nulla, ma proprio nulla a che vedere con le tradizionali correnti, e non solo perché i due non si sono mai occupati di «cucina» interna. Di quella si curano - e continueranno a curarsi - gli addetti all’apparato: in Forza Italia il «centro» di Cicchitto-Bondi-Vito-Verdini, l’agguerrito terzetto dei siciliani Schifani-Alfano-Micciché, i ciellini di Formigoni e Lupi, i pugliesi di Fitto, gli ex raccolti attorno al ministro Scajola; dentro An i capi della futura corrente «nazionale», il trio La Russa-Gasparri-Matteoli. Ma buona parte del potere vero lo muovono quei due, Tremonti e Letta, capi di due originalissimi sub-partiti. Tremonti, superministro dell’Economia e ideologo del nuovo centrodestra, per dirla con un suo critico storico come Bruno Tabacci, «oramai si è preso un potere che nessun altro ministro dell’Economia ha mai avuto nella storia della Repubblica». Un sub-partito - ecco il punto - in feeling con uno dei banchieri più potenti d’Italia, quel Cesare Geronzi, che in un’intervista di qualche giorno fa al «Sole 24 Ore», ha detto: «Tremonti è il vero punto di forza del governo ed è molto maturato: meno professore e più uomo politico e di Stato». Un segnale forte perché arriva proprio da Geronzi, che attraverso Mediobanca ha voce in capitolo in giganti come Generali, Telecom, Rcs-Corriere della Sera. Quel Cesare Geronzi che ancora qualche anno fa - in contrasto con Tremonti - incarnava l’ala papalina della finanza bianca. Un mondo che, nel 2004 si arroccò in difesa del Governatore Antonio Fazio, arrivando a disarcionare proprio il ministro Tremonti, che contrastava la politica della Banca d’Italia. Chi non mosse un dito a favore di Tremonti in quella occasione fu proprio Gianni Letta, che oggi non a caso è il capofila dell’altro sub-partito del Pdl: quello dell’eterna Italia democristiana, il potere forte dai modi gesuitici. Personaggio dalla proverbiale cortesia, Letta dispone anche di una teutonica capacità di lavoro, con quella sveglia alle 5,45 che apre la stura ad una giornata fitta di incontri felpati. Un orecchio al Vaticano e un altro alla sanità del Lazio, una segnalazione per il consigliere di amministrazione del Teatro dell’Opera di Roma, la cura occhiuta degli organigrammi della dirigenza ministeriale: «E’ stato lui - confida un ministro del governo Berlusconi - a volere che in ogni ministero ci fossero almeno un altro dirigente in continuità con i governi di centrosinistra». Già perché l’altra originalità dei due sub-partiti è l’alleato esterno. Tremonti, si sa, ha un solido legame con Umberto Bossi. Più «coperto» e interessante il rapporto con Massimo D’Alema. I due si studiano da anni e in sedi sempre meno appartate hanno cominciato a farsi le «fusa». A metà maggio, in un dibattito a due organizzato da Lottomatica, Tremonti arrivò in fortissimo ritardo e ciononostante D’Alema lo accolse così: «Uno dei più bravi e brillanti ministri d’Europa». L’altro ci ha rimuginato e poi ha ricambiato in un luogo nel quale tutti potessero ascoltare. Il 17 luglio, a Montecitorio durante il dibattito sulla manovra economica, Tremonti ha elogiato così D’Alema: «Intervento da statista». Più carsico il sistema «esterno» del sub-partito lettiano. La liaison più importante è quella che lega il braccio destro del Cavaliere con Walter Veltroni e Goffredo Bettini. In campagna elettorale il leader del Pd ha fatto una affermazione impegnativa: «Mi piacerebbe che Letta facesse parte del mio governo». Da tempo ormai i capofila dei due sub-partiti si contrastano, sotto traccia e con argomenti contrapposti, su molti dossier. L’altro giorno, proprio per fugare la diceria di una diatriba sul ruolo delle Regioni, Letta si è prodotto in una pubblica apologia della Finanziaria tremontiana. Naturalmente si può sempre far pace, ma raccontano che tre mesi fa Letta abbia cercato di evitare che Tremonti facesse il ministro dell’Economia. Anche se alla fine è stato proprio Letta a dover rinunciare all’ambizione di diventare vicepresidente del Consiglio. Fabio Martini