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 2008  agosto 04 Lunedì calendario

”Sul set tra amori e pistole”. La Stampa 4 agosto 2008 Il cowboy ha settant’anni, ma il primo a non crederci è lui

”Sul set tra amori e pistole”. La Stampa 4 agosto 2008 Il cowboy ha settant’anni, ma il primo a non crederci è lui. Gioca a tennis, fa pesi e corsa, si tuffa dal trampolino del suo bunker di Cerveteri. E poi piscina, palestra, laboratorio, moglie, cani e statue, un po’ deserto dei tartari, un po’ Fort Alamo, dove l’assedio è solo quello del tempo e nemmeno tanto feroce. Il resto è da manuale. L’afa rocciosa, l’hotel «El Paso» all’entrata del paese, via Ammazzalamorte, la necropoli etrusca e poi la casa di Ringo, alias Giuliano Gemma. Mancano le pallottole che fischiano, le trombe e le armoniche di Morricone, ma il rumore del vento è quello: il vento dell’ovest, del western all’italiana. Prendi qualunque Sergio Leone, la scena iniziale de «Il buono, il brutto, il cattivo», un capolavoro. E’ il vento del deserto, delle cose che stanno per accadere, delle mani nervose, delle pistole che fondono nelle fondine, l’immanenza della carneficina. Settant’anni all’anagrafe e cinquanta di cinema, Giuliano Gemma incassa di questi tempi nastri d’argento e globi d’oro. Lo invitano ovunque ma preferisce starsene con la moglie Baba, giornalista Rai, che lui chiama Pisola, e i tre cani, su tutti il prediletto Puck, una ringhiosa palla di pelo che, a comando, imita Humphrey Bogart quando fa la smorfia da duro. Di essere Ringo per il mondo intero (idolatrato in Giappone) gliene importa poco. Gemma preferisce mostrare le sue sculture, il suo Chaplin ad altezza naturale o la ballerina con il volto della figlia Vera e il corpo di Manuela Arcuri, il pugile con il torace di Nino Benvenuti e la faccia dell’amico Jon Voight. «Devo spedirglielo in America, me lo ha chiesto». La cicatrice sullo zigomo è sempre quella, di quando ragazzo nel dopoguerra andava a frugare sotto terra. C’era di tutto nella campagna dei nonni a Reggio Emilia: moschetti, bombe a mano, spolette, bengala, tutte armi dei tedeschi «che facevano paura anche quando andavano via» e degli americani «che mettevano allegria solo a vederli». «Scoprii il sapore della cioccolata fondente, le caramelle con la carta argentata. Ci tiravano di tutto dai carri. Un giorno, scavando, trovai un tondino. Ci divertivamo a schiacciare i tappi di bottiglia per giocare a sottomuro. Colpii l’ordigno con un mattone, che si disintegrò ma mi fece da schermo, altrimenti sarei rimasto cieco a vita». Già tutti i fondamentali di Ringo, il rischio, i grandi spazi, la sfida. «Sparivo sempre. Mia nonna mi inseguiva col cane. Cercavamo i fili di rame per venderli. Eravamo sempre alla scoperta del mondo, era tutto una conquista». E’ bello spaventarsi da bambini. «So cos’è la paura. Per me la misura del coraggio è come affronti la paura. Da pugile stavo sul ring contro uno che voleva la stessa cosa tua, farti a pezzi». Continua a fare cose estreme? «Una cosa estrema è andare in diretta da Chiambretti. Non mi sono mai sentito così in pericolo. Ma, devo dire, si è comportato bene». Anche i miti hanno i loro miti. «C’era chi andava al cinema per masturbarsi, bastava un lembo di coscia sfuggito alla censura. Ma io preferivo il cinema d’avventura. La mia prima visione al Metropolitan di Roma fu ”Sansone e Dalila”. Il massimo era Erroll Flynn nella parte del generale Custer… La mia passione però era la ginnastica artistica, ma a quattordici anni ero già un bisteccone di un metro e ottanta. Dovetti lasciare». Povero ma bello e anche acrobata. Un predestinato. «Cominciai da stuntman. Mi notò William Wyler sul set di ”Ben Hur" e mi ritrovai a girare una scena, io che mi avvento col pugnale tra Charlton Heston e Stephen Boyd. Charlton mi battè la mano sulla spalla: ”Tu vero romano”». Da Charlton Heston ad Alberto Sordi. «Piacevo a Sordi. Nel film mi chiamava Brando, una sua invenzione. "Bello Giulianone mio", mi diceva sempre. Aveva un’attrazione estetica per me». Era l’epoca del cinema alimentare. «Lo chiamavamo così. Cinema per mangiare. L’era dei Peplum, i film in sandalo e costume girati a due lire nella campagna romana». L’incontro con Luchino Visconti? «Sul set del ”Gattopardo". Ero un generale garibaldino che arruolava Alain Delon in un convento di suore. Non fu mai montata quella scena. Luchino mi chiese scusa». Ha incrociato sul set tutte le dive dell’epoca. Una sofferenza resistere alle tentazioni. «Ma, non è che abbia poi resistito così tanto. La mia prima moglie, Natalia, mi lasciava libero». Ha avuto più o meno di tremila donne? «Non le ho mai contate, ma la qualità delle storie è più importante del numero. Quelle sul set sono incidenti di percorso. Nascono per creare una complicità e finiscono di solito con la fine del film. Piacevoli parentesi». Una parentesi più piacevole di altre. «Fu con Stefania Sandrelli, sul set di ”Speriamo che sia femmina". Stefania è l’attrice con cui mi sono trovato meglio, una donna vera, che vive tutto quello che fa intensamente. Anche con Claudia Cardinale mi sono trovato bene. Mai divismi, una professionista». Dal Peplum al Western. «Fu un’idea di Duccio Tessari. Venivo dal set di ”Angelica” e Sergio Leone aveva fatto saltare il botteghino con il suo ”Per un pugno di dollari”». E fu subito Ringo. «Un successone. In locandina figuravo come Montgomery Wood. Andavano di moda i nomi esotici. Sergio Leone si faceva chiamare Bob Robertson. Il primo western spaghetti in assoluto fu ”Un dollaro bucato”. Lo girammo in trenta giorni, tra la campagna romana e gli interni degli stabilimenti Elios». Era già famoso e si esibiva al Circo Americano. «Feci il trapezista un mese per dare una mano ai Togni. Anche tre spettacoli al giorno, ovazioni della gente quando mi esibivo nel doppio salto mortale». Strepitosi attori nei western italiani. «Clint Eastwood fu un’intuizione di Sergio Leone. Arrivò che era uno sconosciuto, si capì subito la sua grandezza. Lee Van Cleef aveva purtroppo il vizio dell’alcol. Il più grande era Eli Wallach. Un improvvisatore pazzesco e, allo stesso tempo, uno che ti spiegava come dovevi fare la tua scena». Il più strambo? «Klaus Kinski. Mandava l’autista a prendere il pranzo da Orcher, un ristorante di Madrid segnalato sulla Michelin. Noi con il nostro modesto cestino, lui con i suoi piatti da gourmet. ”Non ti vergogni? Così ci fai sentire dei poveracci”, gli dissi un giorno… ”Tu dovevi nascere nel Settecento schiavista”. Annuì con entusiasmo: ”E’ vero!”». Coppia inedita con Bud Spencer in «Anche gli angeli mangiano i fagioli». «Credo che Terence Hill avesse litigato con il produttore. Mi sono divertito con Bud. Dovunque andavamo aveva sempre la mappa dei migliori ristoranti. Allora era magrolino, pesava appena 110 chili». America, la grande occasione. «Non l’ho mai detto: sono uno dei pochi che ha risposto no a John Huston. Dovevo fare ”L’ultima fuga” con lui, ma stavo antipatico al produttore inglese. Mi mise delle condizioni capestro. Rinunciai». Non si è negato nulla. «I due film che ricordo più volentieri sono ”Il prefetto di ferro” con Squitieri e ”Il deserto dei tartari” con Zurlini. Mi hanno dato una definizione di attore completo, al di là dei generi». Arriva il cowboy checca. Il Western, come la mafia, ha i suoi canoni, il mito della virilità su tutti. «Non mi scandalizza questa storia dei gay. Anzi. Era una vita solitaria quella dei cowboy: montagne, deserti, grandi spazi, poche donne. La stessa Hollywood era piena di gay insospettabili. Uno choc quando incontrai il virilissimo Rock Hudson: era una bambina». Frank Sinatra e i suoi amici del clan andavano alle feste, Dean Martin preferiva restare a casa a guardarsi un western. «Non me lo perdo un classico con Burt Lancaster o Henry Fonda». Quentin Tarantino la vuole incontrare per chiederle un autografo. «Per il momento è diventato amico di mia figlia Vera, che cucina piatti italiani per lui a Los Angeles. Capiterà l’occasione di conoscerci. Mi piace il suo cinema. ”Le iene” ha ripreso pari pari la storia di ”Un dollaro bucato”». E’ stato il figlio di Rita Hayworth. «Sul set de ”I bastardi”. A 52 anni era ancora un sogno. Guardando una sua vecchia foto disse: ”Ero bella davvero”. E io: ”Sei ancora bella mamma”». La più bella di tutte? «Ursula Andress. Perfetta nelle proporzioni. Donna instancabile, forte personalità, molto avara. L’unica uscita illesa da una storia con Jean Paul Belmondo. Ma, per i miei gusti, è più appetitosa la donna mediterranea, tipo la Cardinale». Sul set con Catherine Deneuve? «Una bellezza fredda. Molto meglio Florinda Bolkan, anche se lesbica. Era spiritosa, mi diceva sempre: non mi piace il genere ma se un giorno cambiassi idea tu saresti il primo». Quiz di cultura Western: «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto». «Gian Maria Volontè a Clint Eastwood in ”Per un pugno di dollari”. Promosso?». Giancarlo Dotto