La Stampa 7 agosto 2008, Bruno Gambarotta, 7 agosto 2008
Un saluto riscalderà Torino. La Stampa 7 agosto 2008 E io dovrei conoscerla?», mi chiese allarmato un professore torinese incontrato all’aeroporto
Un saluto riscalderà Torino. La Stampa 7 agosto 2008 E io dovrei conoscerla?», mi chiese allarmato un professore torinese incontrato all’aeroporto. Il giorno prima avevo assistito alla sua conferenza, e non avevo resistito alla tentazione di salutarlo. Non è un’impresa da poco salutarsi a Torino, superare di slancio la barriera invisibile di riservatezza che ci protegge (e ci isola). Ci sono abbonati alla stagione dell’Unione musicale che occupano da quarant’anni due poltrone vicine e solo adesso si scambiano un timido cenno del capo, ma non è bello indagare su chi ha iniziato. L’oggettiva difficoltà del torinese nel salutare sconosciuti la si può notare alla messa della domenica quando, verso la conclusione, il celebrante ordina: «Scambiatevi un segno di pace». I fedeli scambiano, è vero, una frettolosa stretta di mano con i vicini di banco ma intanto lo sguardo ansioso vaga in cerca degli amici e dei parenti, quelli sì da salutare per davvero. Il torinese si scioglie e saluta quando è lontano dal suo elemento abituale, in campeggio o sui sentieri di montagna. Ma lì siamo tutti sulla stessa barca, in balia della natura capricciosa e ostile. Salvo poi, ritornati in città, riprendere le vecchie abitudini del riserbo. Compiendo un visibile sforzo un tale che incontravo e salutavo solo in montagna, un giorno, incrociandomi in città, mi ha domandato: «Non la vediamo più a Torgnon?». Si vedeva che era spiacente di aver perso una delle poche occasioni lecite di salutare qualcuno senza commettere un peccato di lesa riservatezza. Salutare diventa un’impresa meno ardua se il rapporto fra i due salutanti è mediato da un terzo elemento neutro sul quale scaricare l’ansia del tabù infranto. Perfetti da questo punto di vista sono il cane da portare a passeggio (se poi i due animali si accapigliano è fatta) e il carrello della spesa al supermercato, dopo le venti, quando la spesa diventa una faccenda da single (gli sposati sono inchiodati al desco). Sarà interessante registrare le reazioni dei torinesi che sabato 20 settembre saranno oggetto di un saluto disinteressato. Prevarrà la sana diffidenza? «Se mi saluta senza conoscermi avrà il suo tornaconto. Cosa vorrà in cambio?». I diffidenti ripasseranno le formule che si usano per declinare l’offerta di un nuovo contratto telefonico, di un’enciclopedia a rate, di una miracolosa carta di credito. Qualcuno crederà a uno scherzo, si guarderà attorno per cercare la telecamera nascosta. Salutare una coppia farà scattare la reazione del partner geloso: «Chi è quella ragazza che ti ha salutato?». «Non la conosco, è la prima volta che la vedo». «E già, sta a vedere che adesso la gente si saluta senza conoscersi. Trovati una scusa più furba». Il saluto disinteressato farà un gran bene alla moltitudine degli invisibili, gli anziani, i soli, gli stranieri, tutta quella varia umanità verso la quale siamo tentati di mettere a fuoco il nostro sguardo all’infinito, pur di non vederli. E pensare che i torinesi per salutare dispongono di uno strumento perfetto, è neutro, denota il torinese old style, fa fine e non impegna: il «cerea». Secondo i filologi nasce per successive contrazioni dal «buongiorno signoria vostra» come il più disinvolto e universale «ciao» discende dal veneziano «schiavo vostro». Sul «cerea» sono fiorite leggende metropolitane: una sostiene che deriva dal greco «chairo» che significa «mi rallegro, gioisco». A sostegno di questa tesi si racconta che un cadetto di casa Savoia, per far sapere che stava studiando il greco, avesse preso a salutare tutti quelli che incontrava con il «chairo» e i torinesi, per compiacere casa reale, si erano messi a imitarlo. Sta di fatto che il «cerea» è perfetto, rispettoso, va bene su tutti, come il grigio: giovane, anziano, donna o bambino, da solo o accompagnato dal titolo: dottore, professore, monsù, madama... un saluto di apertura e anche di congedo, in questo caso è sufficiente farlo seguire da un neh: cerea neh! Traduzione: ho chiuso le tapparelle, per stasera lasciatemi in pace. Bruno Gambarotta