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 2008  agosto 07 Giovedì calendario

Questa Pechino piacerebbe a Hitler. La Stampa 7 agosto 2008 Quando nel 2001 il presidente Hu Jintao gli ha chiesto di riprogettare la Pechino olimpica, trasformandola nel simbolo planetario della tumultuosa rinascita cinese, Albert Speer jr ha dimenticato per un istante la balbuzie che lo sorprende fin da bambino quando deve fare i conti con l’ingombrante figura del padre

Questa Pechino piacerebbe a Hitler. La Stampa 7 agosto 2008 Quando nel 2001 il presidente Hu Jintao gli ha chiesto di riprogettare la Pechino olimpica, trasformandola nel simbolo planetario della tumultuosa rinascita cinese, Albert Speer jr ha dimenticato per un istante la balbuzie che lo sorprende fin da bambino quando deve fare i conti con l’ingombrante figura del padre. «Chi ha mai avuto la possibilità nella sua vita di pianificare una città che ha più di tremila anni? Berlino, in confronto non è niente». Così, carico di entusiasmo, si è piegato sul tavolo da disegno per dare forma all’idea che ha accompagnato, forse anche solo inconsciamente, tutta la sua vita. Un mostro (un gioiello?) pensato secondo le stesse linee guida che nel 1936, due anni dopo la sua nascita, avevano spinto Albert Speer, l’Architetto del Diavolo, a creare la Berlino olimpica del Fuhrer e poi a immaginare l’incompiuta Grande Capitale dell’Impero Ariano. Una Beijing tedesca ante litteram. Ma nella famiglia Speer il destino ha bussato due volte. Da un totalitarismo all’altro, dal nero al rosso, in un cortocircuito paradossale che lascia stupefatti, la storia si ripete secondo simmetrie bizzarre. Il cuore dell’aggressivo progetto di Albert Speer padre per la capitale globale, prevedeva un’asse da Nord a Sud che tagliasse la città per sedici chilometri e, come emblema architettonico, una stazione, cupa, gotica, ma di respiro imperiale. Albert Speer junior ha sconvolto Pechino costruendo un’asse da Nord a Sud di venticinque chilometri che scivola dal villaggio olimpico alla Città Proibita. Senza farsi mancare, naturalmente, una stazione monumentale. Un intervento possibile solo con un regime totalitario. Lo stesso senso di onnipotenza, di virilità, sviluppato attorno a una elegante strada maestra che funziona bene sia per le parate, sia, teorizzava Hitler, per i carrarmati quando c’è aria di rivolta. «Basta con questa storia dei regimi, non potevo dire di no alla Cina», si è lamentato Speer con l’Art Kunst Magazine e col Berliner Tagespost. «Solo in Europa si ritiene che non sia giusto lavorare per un regime. Ma io interpreto la mia professione come quella di un piccolo fornitore di servizi tedesco. E non me ne frega niente di certe considerazioni sulla mia famiglia». A lui no. Gli investimenti, a Pechino, sono stati faraonici, 42 miliardi di dollari (26 per strade e metropolitane). Utilizzati non solo da Speer. Oggi Beijing, la capitale del Nord, è una città inesistente, una città di sabbia, secondo lo scrittore Qui Huadong, che continua ad allargarsi e a espandersi circolarmente, con palazzi che crescono innaturalmente verso l’alto, come castelli al mare, pronti alla prossima onda destinata a buttarli giù. Una Las Vegas futuristica, rivoluzionaria e allo stesso tempo gelida e impersonale, eretta in fretta e furia grazie a plotoni di contadini costretti ad abbandonare le campagne per trasformarsi in muratori a tempo e spingendo migliaia di residenti a sloggiare dai propri vicoli, dalle proprie case basse, dalla propria vita. Nessuna marcia No Tav, nessun Verde in grado di dire qui no. Zitti e pedalare, solo la Cina conta. Piaceri della società massa, dove l’individuo è uno strumento per la gloria di tutti. «L’interesse del partito mi scalda il cuore» diceva una vecchia canzone popolare molto in voga ai tempi di Mao. Giusto così? Il dubbio deve essere venuto persino a Speer jr, che pure il suo mestiere lo ha fatto con grande accuratezza, dando vita a una città giocattolo, nel mezzo di una metropoli di diciotto milioni di abitanti, piena di laghi e parchi verdi, in cui antiche betulle si rincorrono con incongrui alberi di stelle alpine. Pulizia e ordine sotto un cielo spesso e basso, un tappeto pesante che si stende sul cemento a quaranta gradi rendendo il respiro affannoso. «Non sono un archistar, non faccio propaganda, non mi preoccupo di monumenti simbolici, ma sogno e realizzo città evolute da un punto di vista della sostenibilità ambientale. I cinesi rispettano l’ambiente molto più di quanto si creda, sono dieci anni avanti ai russi. La Cina è una dittatura, ma non una dittatura militare, perciò mi metto al loro servizio», chiosa Speer, i cui progetti più significativi sono stati realizzati in Cina, Arabia Saudita, Nigeria e Azerbaigian. «Vengo da una famiglia di architetti, anche mio nonno lo era, e alle elementari disegnare era l’unico modo che avevo per non balbettare più». Un bambino tedesco, nato dall’ombelico della Germania nazista, che ha creduto di cancellare l’ombra cattiva del padre, radendo al suolo un mondo per ridare forza al suo. Andrea Malaguti