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 2008  agosto 13 Mercoledì calendario

Le voci si sono diffuse in maniera clandestina ma ricorrente negli ultimi giorni. Dicono che numerosi investitori internazionali hanno acceso un faro su quel che sta accadendo in Mediobanca, l’istituto di credito che si trova al centro dei grandi equilibri della finanza e del potere economico italiano

Le voci si sono diffuse in maniera clandestina ma ricorrente negli ultimi giorni. Dicono che numerosi investitori internazionali hanno acceso un faro su quel che sta accadendo in Mediobanca, l’istituto di credito che si trova al centro dei grandi equilibri della finanza e del potere economico italiano. Giovedì 31 luglio la banca che fu di Enrico Cuccia è stata oggetto di un blitz che avrà l’effetto di concentrare poteri crescenti nelle mani di Cesare Geronzi, il discusso banchiere di 73 anni che è stato a lungo protagonista delle fortune e delle disavventure della Banca di Roma. La novità arriva a 14 mesi da una riforma che era stata salutata dagli investitori come una chance per mettere un freno agli interessi in conflitto che corrodono il capitalismo italiano e Mediobanca in particolare. Nel giugno 2007 il vertice dell’istituto era stato diviso in due: da una parte un consiglio di sorveglianza, presieduto da Geronzi, che aveva raccolto i maggiori azionisti e che doveva definire le strategie. Dall’altra un comitato di gestione, composto da manager interni e guidato da due dirigenti, Renato Pagliaro e Alberto Nagel, che nelle intenzioni avrebbero dovuto condurre la banca al riparo dalle pressioni degli imprenditori-soci. Decidendo a chi concedere i prestiti oppure selezionando i candidati per i vertici delle società partecipate più importanti come le Assicurazioni Generali, Telecom Italia e la Rcs, la casa editrice del ’Corriere della Sera’. Ora Geronzi ha guidato il blitz per riportare Mediobanca al vecchio sistema e se stesso al centro dei giochi. Una mossa che cambia la storia dell’istituto, fin dai tempi di Cuccia gestito da manager impermebabili alla politica. E che può aprire le porte agli appetiti di Berlusconi sul ’Corriere’ e sulle maggiori aziende italiane. La novità è stata accolta con allarme da quegli investitori internazionali che si erano avvicinati ai titoli dell’istituto, in passato snobbati proprio per le complicate alchimie al vertice. Le indiscrezioni dicono che a Londra e nelle altre capitali finanziarie si sta valutando la possibilità di costituire un fronte di investitori qualificati per studiare eventuali contromosse, se l’annunciata revisione delle regole approdasse a risultati inappropriati. Tra gli altri si starebbe muovendo Amber Capital, una società d’investimento che possiede il 2 per cento di Mediobanca. Gli occhi sono puntati anche sulle decisioni che potrebbe prendere Fidelity Investments, un colosso internazionale specializzato nella gestione di fondi che professa un forte impegno nel tutelare il valore delle società in cui investe. Interpellato da ’L’espresso’, Fidelity afferma di seguire gli sviluppi con attenzione: "Per noi è fondamentale che il management di Mediobanca possa continuare a svolgere la propria attività in modo indipendente e nel rispetto delle linee guida della Banca d’Italia", dice Trelawny Williams, il responsabile per le questioni del governo societario. Williams precisa che il gruppo, in Mediobanca proprietario dell’1 per cento, non è pregiudizialmente a favore di un modello organizzativo. Tuttavia, dice, "i recenti cambiamenti sembrano essere stati concordati molto velocemente e senza un’estesa consultazione tra i soci". Nel mirino dei grandi fondi c’è, dunque, il lavoro che un comitato di cinque consiglieri di sorveglianza sta svolgendo per riscrivere le regole. Le premesse non brillano: Geronzi e i grandi soci hanno già dettato il punto d’arrivo, che sarà il ritorno al vecchio consiglio con il banchiere romano al vertice. Inoltre non mancano i dubbi sui margini di manovra del comitato, presieduto da Geronzi stesso. Vi siede, ad esempio, Tarak Ben Ammar, il produttore cinematografico tunisino che contribuisce a tenere i rapporti con Berlusconi. E che, in consiglio, rappresenta il finanziere Vincent Bolloré e gli altri soci francesi, da tempo schierati con Geronzi. Nel comitato c’è poi Marco Tronchetti Provera, maggiore azionista della Pirelli, una società al cui controllo Mediobanca contribuisce direttamente (con il 3,9 per cento) e tramite Generali (5,3). La stesura del nuovo statuto, infine, è affidata al notaio Piergaetano Marchetti, che ricopre il ruolo di presidente di Rcs, in scadenza il prossimo anno. Lo scontro che si è aperto fra Geronzi e i manager, in effetti, rivela quanto potere si concentra ancora nel poco appariscente palazzo dove ha sede Mediobanca, proprio dietro il teatro milanese della Scala. Un potere che passa attraverso le partecipazioni dirette e, soprattutto, attraverso le Generali, dove Mediobanca ha la quota di maggioranza relativa (il 15,6). La compagnia triestina è seduta su un patrimonio di risorse investibili pari a 340 miliardi di euro, un tesoro che da sempre fa gola a tanti e che, messo in cattive mani, si presterebbe a distorsioni formidabili. Sul modo di investire le loro riserve, infatti, le assicurazioni rispondono in Italia a limiti meno stringenti di quelli in vigore altrove e possono, ad esempio, puntare risorse rilevanti anche su società non quotate, come Generali ha fatto nella finanziaria della famiglia Benetton che controlla le Autostrade, oppure in Telco, la holding che custodisce la maggioranza di Telecom. Così, ancor più di Mediobanca, le Generali rivestono il ruolo di puntello del capitalismo italiano, con quote a volte determinanti per il controllo come in Intesa Sanpaolo o nell’Impregilo di Ligresti, a volte più defilate, come nel gruppo Gavio o nell’Editoriale L’Espresso. La posta spiega dunque la volontà di Geronzi e degli azionisti di Mediobanca di recuperare la presa sull’istituto. Se infatti altre società che hanno scelto il doppio consiglio affermano di trovarsi benissimo con il nuovo sistema, come ha fatto per Intesa Giovanni Bazoli, presidente dei sorveglianti, in Mediobanca si è arrivati al punto di rottura. Dietro le quinte si dice che tra i motivi di dissidio ci sarebbe la nascita di CheBanca, la rete di sportelli con cui l’istituto ha iniziato a fare concorrenza diretta a uno dei propri soci, l’Unicredit, che non avrebbe gradito. Un’altra operazione delicata sarebbe stata la privatizzazione Alitalia. Mediobanca ha fatto da consulente alla cordata del fondo Tpg; anche se l’offerta americana non è andata in porto, sui dettagli si sarebbero registrate opzioni diverse fra Pagliaro, contrario a qualsiasi finanziamento diretto, e Nagel, più possibilista. In questi spazi si è fiondato Geronzi, deciso a riprendere potere. La sua rivoluzione, ha detto il banchiere in un’intervista al ’Sole 24 Ore’, ha diversi motivi: si va dalle pretese di autonomia da parte di Pagliaro e Nagel al rischio per i consiglieri di sorveglianza di condividere le responsabilità di scelte fatte dai manager. Un timore che non sembra condiviso dalle altre società con doppio consiglio e che difficilmente pare un’urgenza pressante, visto che Mediobanca è rimasta fuori dai guai giudiziari in cui si è infilato Geronzi con la Banca di Roma: condannato a Brescia in primo grado a un anno e otto mesi per il ruolo nella bancarotta Italcase, è imputato a Parma nel processo Parmalat e a Roma in quello Cirio. A dispetto della versione ufficiale, però, ci sono altre ragioni che spiegano la volontà di stravolgere completamente le nuove regole. La prima riguarda i limiti che la Banca d’Italia ha posto per impedire ai consiglieri di sorveglianza di invadere i territori del management e di farsi nominare al vertice delle controllate. Un niet, quest’ultimo, che impedisce a Geronzi di assumere la vicepresidenza delle Generali, trampolino di lancio per la presidenza. La seconda riguarda una minaccia che tutti gli imprenditori-soci di Mediobanca paventano. Il caso è emerso con il ricorso fatto lo scorso inverno dal fondo inglese Algebris per impedire ai Benetton di nominare il presidente del collegio sindacale delle Generali, carica che spetterebbe ai soci di minoranza e non ad azionisti che, come la famiglia veneta, hanno uno stretto interscambio con il gruppo. La battaglia vinta da Algebris ha messo in crisi un meccanismo che ha permesso a Mediobanca di pilotare la nomina di candidati interni al sistema stesso e ha portato alla luce le operazioni in conflitto d’interessi effettuate attorno all’istituto. L’ultimo esempio viene dal recente aumento di capitale di Banca Carige, organizzato da Mediobanca, dove Generali è intervenuta per sottoscrivere le azioni che i soci non avevano esercitato, garantendo il successo dell’operazione. La questione è delicata perché, proprio in queste settimane, la Consob sta elaborando una nuova normativa per rendere più trasparenti le cosiddette operazioni con parti correlate e riservare agli amministratori indipendenti un ruolo decisivo nelle scelte che le riguardano. Una novità nei confronti della quale Geronzi si è scagliato apertamente, facendo probabilmente propri i timori di gran parte degli azionisti. I quali, messi di fronte al rischio di troppe novità che avrebbero accresciuto l’indipendenza di Mediobanca dai loro interessi, hanno reagito stringendo la presa. Se come pare il tentativo avrà successo, il futuro di Mediobanca non è comunque assicurato. Il comportamento di Unicredit, che prima ha dato il via libera al piano di Geronzi per cercare, all’ultimo minuto, di preservare un minimo di spazio ai manager, ha infatti riaperto la strada a un’ipotesi speculativa sempreverde. Quella di una scissione di Mediobanca: da una parte la banca d’affari, che potrebbe far gola a Unicredit, dall’altra la holding di partecipazioni, sotto la guida di Geronzi. Luca Piana 2 - CONFLITTO NELL’OMBRA - COLLOQUIO CON BRUNO TABACCI (L.P.) - "Stiamo assistendo a un’enorme partita di potere che si svolge all’ombra di un conflitto d’interessi che si è ramificato come una piovra". Bruno Tabacci, vicepresidente della Commissione Bilancio della Camera, è una delle poche voci che dalla politica ha il coraggio di affrontare quel che accade in Mediobanca. Un suo libro pubblicato un anno fa, ’Politica e Affari’, scritto grazie a una lunga frequentazione con il mondo della finanza, conteneva un capitolo intitolato ’La fine di Mediobanca’. Una profezia che, ora, lo rende un interlocutore autorevole. Qual è il suo giudizio sulle novità in Mediobanca? "Parto da due fatti che si sono verificati negli ultimi giorni. Il primo riguarda una lettera che un mio collega dell’Unione di centro, Michele Vietti, autore della riforma che ha permesso lo sdoppiamento del consiglio di sorveglianza dal comitato di gestione, mi ha detto di aver inviato al ’Corriere della Sera’ per difendere la sua legge dagli attacchi di Cesare Geronzi. Il ’Corriere’, che è parte in causa perché Mediobanca è grande azionista dell’editore Rcs, non l’ha pubblicata e Vietti ha dovuto rivolgersi al ’Sole 24 Ore’". Perché, a suo parere? "Nella lettera Vietti si chiedeva quando è opportuno il cosiddetto sistema duale. Ci sono diverse possibilità. Lo è quando i soci sono disinteressati alla gestione e guardano solo al profitto: è palese che in Mediobanca non è così. Oppure quando la gestione richiede elevate competenze professionali, e nel nostro caso evidentemente gli azionisti non le vogliono. Infine quando i soci sono portatori di interessi che generano conflitti con l’attività della società: è il caso di Mediobanca ed è per questa ragione che la separazione tra gestione e controllo aveva un senso forte, come dimostra il piccolo caso della lettera non pubblicata dal ’Corriere’". Brunetto Tabacci © Foto U.Pizzi Lei ha citato un secondo fatto accaduto in questi giorni... "Giovedì 31 luglio ho scritto un duro intervento sul piano studiato da Intesa Sanpaolo per Alitalia, nel quale sostenevo che la compagnia, ripulita dai debiti e dai dipendenti in eccesso, non può essere consegnata gratis agli imprenditori amici del premier Silvio Berlusconi, ma va venduta tramite una gara aperta a tutti. La principale agenzia di stampa italiana, l’Ansa, non ha riportato il mio intervento. Per questo parlo di un conflitto d’interessi che si è ramificato come una piovra: nelle partite di potere in corso, le notizie scomode per Berlusconi e per i suoi amici potenti non vengono date. Per questo mi preoccupano le ripercussioni del caso Mediobanca sul ’Corriere’: a essere minacciata è la qualità stessa del sistema democratico italiano. Perciò spero che la risposta dei manager di Mediobanca sia all’altezza della situazione". Mediobanca ha sempre intrattenuto rapporti con il potere politico... "Ma erano rapporti qualificati, da parte di banchieri di grande spessore intellettuale come Raffaele Mattioli ed Enrico Cuccia, dotati di un rigore calvinista e capaci di tenere testa alle pressioni della politica. Oggi, invece, ci troviamo da una parte Berlusconi in uno straordinario stato di forza. Dall’altra i soci di Mediobanca le cui fortune dipendono dalla sua benevolenza, con un presidente coinvolto in vari processi". Da più parti si sottolinea la necessità di una stretta sui criteri di onorabilità per sedere al vertice di banche e assicurazioni. "La competenza è del ministro dell’Economia. Sono convinto però che un pressing più motivato da parte del governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, avrebbe costretto l’ex ministro Tommaso Padoa-Schioppa a intervenire, perché esistono posizioni dove occorre la massima trasparenza. Mi dicono che persino in Colombia un condannato in primo grado non può guidare una banca: da noi sarebbe prudente almeno una sospensione in attesa che si chiariscano le responsabilità". Ora toccherebbe a Giulio Tremonti... "Mi permetta una battuta: l’ombrello anti-processi andrebbe allargato ai banchieri e a chi detiene il vero potere. Non credo che Tremonti interverrà: temo che benedica gli assetti attuali, che gli permettono di coordinare le grandi partite economiche che si stanno aprendo".