Mario Pappalardo, Corriere della Sera 8/8/2008, 8 agosto 2008
I morti per tumore sono circa 130 mila ogni anno in Italia. Di questi, almeno 100 mila avrebbero bisogno di cure palliative nella fase terminale
I morti per tumore sono circa 130 mila ogni anno in Italia. Di questi, almeno 100 mila avrebbero bisogno di cure palliative nella fase terminale. A domicilio, se l’ambiente e la famiglia lo consentono. In una struttura dedicata, se si è soli o con familiari con problemi socio- economici o psicologici. Assistere alla fine della vita di un congiunto non sempre è emotivamente sostenibile. Per questo esistono gli Hospice. Che oggi emergono dal silenzio, perché in uno di questi centri verrà ricoverata Eluana Englaro negli ultimi giorni della sua esistenza. Negli Hospice non ci sono né sondini per l’alimentazione forzata, né respiratori. Tutto questo, se non richiesto, è accanimento terapeutico. Le cure sono per ridurre i sintomi, il dolore, la sofferenza anche psicologica, rasserenare nel momento terminale. O per aiutare chi terminale non è, ma non è più curabile. Numeri insufficienti Ma in Italia gli Hospice, nati tardi, sono ancora pochi: 2.346 posti letto. Insufficienti. Si stima che almeno 250 mila malati vi dovrebbero ricorrere, molti dei quali attualmente degenti in ospedale (con costi elevati per il servizio sanitario). Gli Hospice sarebbero la tappa più giusta per persone con malattie incurabili come sclerosi multipla, gravi cirrosi (fegato), la Sla (che ha portato Welby a chiedere l’eutanasia), con insufficienze respiratorie o cardiache che non rispondono più ai farmaci. Se i numeri lo consentissero. Non è però questione di soldi. Anzi. Duecentosei milioni e 566 mila euro sono stati finalizzati a una rete di queste strutture. Erogati nel 1999 e ancora nel 2001. Nel 2008 restano ancora da spendere 44 milioni e rotti. E di Hospice a disposizione ce ne vorrebbero sempre di più perché aumenta la consapevolezza delle diagnosi, anche le più infauste, e perché sempre un maggior numero di persone vuole decidere come morire. L’ultima diagnosi Per accedere ad un Hospice bisogna avere una diagnosi terminale, il che vuol dire, teoricamente, 2-3 mesi di vita. così negli Usa e in Inghilterra, è così anche in Italia. Ma succede che il malato, finalmente senza dolore e coccolato, vive anche molto di più. «Anche un anno», dice Piero Morino, responsabile dell’Hospice delle Oblate di Firenze. Potere delle cure palliative, cioè di quei trattamenti destinati a rendere sopportabili e vivibili con dignità e senza dolore gli ultimi mesi dei malati terminali. «Senza sondini per alimentazione forzata, né macchine da vita artificiale. In pieno rispetto della volontà del malato e dei familiari», ribadisce Morino. «Manca però un consenso informato adatto agli Hospice », avverte Mauro Marinari, direttore del Nespolo di Airuno (Lecco). Alcuni familiari pretenderebbero le stesse terapie di una rianimazione. Invece, filosofia dell’Hospice è: solo trattamenti sintomatici, psicologici e fisioterapici. Una filosofia che abbatte anche la richiesta di eutanasia. Un fine vita «coccolati » accresce il desiderio di continuare a sperare. I finanziamenti In un’Italia «affamata» di fondi i finanziamenti per gli Hospice hanno stentato a essere attivati. Tant’è che alla fine del 2007 c’era ancora un residuo di 44 milioni da spendere e solo tre Regioni che avevano completato il piano: Emilia Romagna, la Provincia autonoma di Bolzano e il Molise. A otto anni dall’erogazione dei fondi mancano all’appello 18 hospice del piano iniziale: ai 206 previsti si arriverà a fine 2008 (con l’aiuto di altri 100 milioni stanziati con la finanziaria 2006). E dovranno salire a 243 nel 2011. In alcune regioni, poi, prevalgono i centri privati: otto nel Lazio contro i due pubblici, con ancora 3 milioni e 800 mila euro da spendere. La struttura tipo Un Hospice tipo dovrebbe avere 10-12 posti letto. E tre medici, 8-10 infermieri, 8-10 operatori socio-sanitari. Una struttura che non sembra complicata da costruire e organizzare. Eppure nel nostro Paese la crescita è stata, e continua ad essere, faticosa. Nel 2002 gli Hospice erano appena 20, nel 2006 114, nonostante i soldi a disposizione. E con i 206 operativi a fine 2008 si avrà una percentuale di 0,40 posti letto ogni 10 mila abitanti. Nonostante ogni anno in Italia siano 250 mila persone ad avere necessità di questo tipo di assistenza. Terapia del dolore in primis. Da uno studio dell’Irc di Genova (2006), risulta che in Italia, per il 42% dei malati di tumore, il dolore risulta talmente insopportabile da far loro desiderare la morte, nel 66% dei casi ostacola anche le semplici attività quotidiane, e per la metà di loro il dolore influisce negativamente sulla vita familiare. La lista di attesa Ma come si accede a un Hospice? Franco Henriquet, responsabile del Gigi Ghirotti di Genova, spiega: «La richiesta per il ricovero deve essere fatta da un medico che fa assistenza domiciliare perché diamo precedenza ai malati che stanno a casa rispetto a quelli ricoverati in ospedale. Limitatamente alla disponibilità dei posti. Al Gigi Ghirotti nel 2007 ci sono stati 219 ricoverati, su 414 richieste. Circa la metà non esaudite». Alcuni in lista d’attesa muoiono prima. E’ richiesta una previsione di fine vita non oltre i tre mesi. «Tuttavia – dice Henriquet – abbiamo avuto pazienti terminali che sono rimasti qui anche un anno. Non è così facile diagnosticare i tempi della malattia». Il medico dell’Hospice valuta le richieste secondo i criteri stabiliti da una convenzione con la Asl. Non si tiene conto della patologia (tipo gli oncologici prima dei neurologici o cose così) o della gravità (sono tutti gravi) ma solo della data in cui è stata presentata la domanda. I pazienti provenienti dalle altre Regioni non sono esclusi, ma devono essere sottoposti a autorizzazione della Regione ospitante. E l’attesa? «Tre, quattro giorni», risponde Marinari che aggiunge: «Da noi il 12% dei ricoverati non sono malati terminali di tumore. Ci sono anche scompensati di cuore e polmonari. Il ricovero a volte è breve, per correggere la situazione, stabilizzarla. Poi assistenza a domicilio». E Morino conclude: «Gli hospice non sono posti dove si va a morire, ma centri in cui si allevia la sofferenza». Mario Pappagallo GENOVA – Le stanze non hanno un numero per identificarle, hanno un fiore: una margherita, un tulipano, un geranio. Dodici stanze, dodici letti, dodici fiori. Anche sulle cartelle cliniche c’è il fiore. L’Hospice della «Gigi Ghirotti», a Genova, accoglie malati terminali, ma il medico responsabile, Nadia Balletto, afferma decisa: «Qui assistiamo i vivi, non pensiamo ai morti». Sono cure palliative, terapie antidolore perché la guarigione, per chi approda in queste stanze, è esclusa. L’assistenza è garantita ventiquattro ore su ventiquattro. L’Hospice vive in un difficile equilibrio: i pazienti hanno una speranza di vita, secondo i certificati che li accompagnano, che non va oltre i tre mesi, ma, spiega il medico, «qui si viene per migliorare la qualità della vita rimanente, non per morire». In un ambiente che non è casa, anche se cerca di essere il più possibile «casa»: i malati possono – se ce la fanno – vestirsi come preferiscono e non sono «condannati » al pigiama, possono – se ce la fanno – farsi portare le lasagne al forno della mamma, possono (e quasi tutti lo fanno) appendere quadri, foto, personalizzare la stanza. Oggi, a poter «in qualche modo» pranzare e alzarsi dal letto, sono solo cinque su dodici. Due sono affetti da Sla, completamente immobili, uno in grado di parlare, l’altro comunica con gli occhi. Le visite dei parenti sono possibili in qualunque momento e per qualunque durata. Ogni camera ha una poltrona trasformabile in letto, chi vuole può fermarsi a dormire. Se il visitatore avverte il giorno prima, gli sarà servita anche la colazione, il pranzo e la cena. Piatti di ceramica, posate vere. C’è un menu del giorno con le variazioni inevitabili: semolino, prosciutto cotto, ricottina. Le camere hanno tutte il televisore. Alla parete c’è il crocefisso, chi desidera può toglierlo. In caso di pazienti musulmani viene tolto prima del loro arrivo. Le richieste religiose dei pazienti vengono sempre rispettate, c’è stato qui poco tempo fa un rito funebre ebraico, il corpo nudo è stato unto e avvolto negli scialli rituali. Quando un paziente viene selezionato per il ricovero la dottoressa Balletto ha un lungo colloquio con i familiari: «Fondamentale è sapere se il malato è a conoscenza della sua condizione o in che misura ne è a conoscenza. Se ha bambini, ad esempio, chiedo cosa sanno i bambini. C’è la possibilità di un sostegno psicologico. Quando la mamma muore e il padre, sovente, perde la testa, da solo non ce la fa a occuparsi dei figli». I bambini, i figli, i nipotini, sono ben accetti. Non è un ambiente cupo, anzi, tutto è luminoso, imbiancato di fresco. C’è molto silenzio. Nel «soggiorno» un grande televisore al plasma, lasciato da una paziente che non c’è più, una play-station per i ragazzini, un computer collegato a Internet e una cesta piena di peluche. Grandissima attenzione viene dedicata ai desideri di fine vita. Cautamente, «nei tempi che stabilisce il malato», racconta la dottoressa Balletto, questi desideri vengono espressi. I più frequenti sono incontrare familiari che, per diversi motivi, si sono allontanati. Sorelle, fratelli, anche genitori e figli che, magari, non si parlavano più da anni per motivi che – ora – appaiono inconsistenti. Si favorisce l’incontro, in qualche caso il familiare – anziano e malato – è stato accompagnato all’Hospice in ambulanza per quell’ultimo saluto. Un paziente desiderava festeggiare il Natale ma sapeva che non ce l’avrebbe fatta, inutile fingere. E’ stata organizzata una festa natalizia il 10 dicembre, con tutti i familiari e i nipoti. Lui è morto il 25 dicembre. «Le madri – dice Balletto – riescono ad andarsene quando hanno l’impressione di avere stabilito un controllo sul futuro dei figli. Fanno raccomandazioni. Di vita, affettive». Le altre volontà sono quelle riferite alle terapie. Quando si è ancora in tempo, il medico stabilisce un codice con il malato che prevedibilmente perderà l’uso della parola, può essere il battito della ciglia. I computer aiutano. «In caso di morte per soffocamento, come nella Sla, bisogna arrivare a stabilire con il malato quali interventi medici accetta: c’è chi rifiuta il sondino e la tracheotomia e chi vuole che sia fatto tutto, fino all’ultimo. Non si può mai giudicare la scelta del malato, non si può mai imporre. C’è chi rifiuta l’antidolorifico. Se non lo vuole, non si fa». Chi rifiuta l’alimentazione con il sondino viene esaudito. «Ma anche qui ci sono – spiega il medico – sprazzi di vita. Abbiamo fatto musicoterapia. Funziona. Qualcuno vuole l’opera e qualcuno Vasco Rossi. Va bene tutto». Il medico Nadia Balletto Erika Dellacasa