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 2008  agosto 07 Giovedì calendario

Avvenire, giovedì 7 agosto La Striscia di Gaza ­è una delle aree a più alta densità abitativa del mondo: un milione e mezzo di palestinesi vivono su una superficie di 360 chilometri quadrati e da un anno non possono più nemmeno uscirne (le restrizioni israeliane su Hamas)

Avvenire, giovedì 7 agosto La Striscia di Gaza ­è una delle aree a più alta densità abitativa del mondo: un milione e mezzo di palestinesi vivono su una superficie di 360 chilometri quadrati e da un anno non possono più nemmeno uscirne (le restrizioni israeliane su Hamas). Mangiano, dormono, studiano e lavorano (quelli che possono). E, inevitabilmente, producono spazzatura. Rifiuti ”speciali” perché anch’essi sottoposti a embargo: lì nascono, lì restano. Misteriosamente, non sulle strade. I palestinesi non sono più bravi dei napoletani: non hanno inventato strategie alternative per riciclare l’irriciclabile, non hanno futuristici sistemi di compostaggio, non spediscono i rifiuti su Marte. Molto più semplicemente, stanno seduti su una immensa discarica: una gigantesca pattumiera a cielo aperto che sta producendo la più pericolosa arma chimica di distruzione di massa. L’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) in giugno ha diffuso un rapporto (Health Sector Surveillance Indicators) che evidenzia la drammaticità della situazione sanitaria a Gaza. I dati (relativi ad aprile e maggio) parlano di una costante crescita dei fattori di rischio per la popolazione. L’appello ­è rimasto sostanzialmente inascoltato. L’inquinamento a Gaza non risparmia nulla: terra, acqua e aria sono contaminate da sostanze potenzialmente devastanti. La situazione più grave riguarda i liquami tossici. L’Autorità dell’Acqua di Gaza (Costal Municipality Water Utility - Cmwu) è ­l’ente che si occupa di fornire acqua potabile a tutti i residenti della Striscia (pidi 130 milioni di metri cubi all’anno) e anche di provvedere al trattamento di quella di rifiuto (in cui si trasforma l’80% dell’acqua potabile fornita). L’impianto di trattamento delle acque di rifiuto deve funzionare per almeno 14 giorni consecutivi per completare il suo ciclo. Il problema è ­che a Gaza l’energia elettrica per 14 giorni consecutivi non c’è mai, perché ­fortemente razionata dall’ottobre scorso, quando le autorità israeliane hanno deciso di introdurre pesanti tagli come misura di pressione su Hamas. Il risultato è che i responsabili della Cmwu dall’inizio dell’anno sono obbligati a versare quotidianamente 60 milioni di litri di acque di scolo nel Mediterraneo: acque solo parzialmente trattate o non trattate del tutto. ­E il dato peggiora continuamente – spiegano all’ufficio di Gerusalemme dell’Ocha, l’agenzia dell’Onu per gli Affari umanitari ”. Adesso stimiamo sia salito a 66 milioni di litri. Lungo la spiaggia, le chiazze scure sono ormai perfettamente visibili. Le correnti portano i liquami a nord, e dunque verso il sud di Israele, nell’area di Ashkelon. Ma lì le spiagge sono chiuse per via dei Qassam (la cittadina, insieme a Sderot,­ è il bersaglio preferito dei razzi palestinesi). E gli israeliani hanno comunque sistemi di depurazione e desalinizzazione dell’acqua molto avanzati. Soprattutto, sostengono di fare «tutto il possibile» per evitare questa situazione e comunque ritengono di avere altre priorità. Ci sono progetti a lungo termine per costruire tre nuovi impianti di trattamento delle acque reflue per l’intera Striscia di Gaza (a Nord est di Gaza City, vicino al campo di el-Bureij e vicino a Khan Yunis). Uno di questi, realizzato in collaborazione con il governo tedesco per un costo tra i 7 e i 15 milioni di dollari, avrebbe dovuto partire alla fine di aprile. Ma Israele, denuncia l’Ocha, non permette il passaggio di materiali e attrezzature (sempre a causa delle restrizioni), così i progetti restano fermi. Problemi molto grossi ci sono anche per fornire l’acqua potabile. Da Gaza, Maher Najar, vice-direttore della Cmwu, spiega che la situazione, nonostante un leggero miglioramento nelle ultime settimane (dopo la firma della tregua con Israele, il 19 giugno),­ è davvero difficile. «­Cerchiamo di risparmiare sull’elettricità per far funzionare quanto più possibile le pompe dell’acqua e gli impianti di desalinizzazione – dice Najar ”. Non bastasse, la mancanza di pezzi di ricambio ci impedisce di dosare la cloridazione dell’acqua, operazione necessaria per renderla potabile. Il risultato di tutto questo è ­che attualmente il 30% della popolazione che non riceve acqua anche per tre-quattro giorni di fila». Che fanno? ­«Aspettano. O la comperano». La cosa non va meglio con l’aria. Mancando, a causa dell’embargo israeliano, il normale combustibile per motori, i palestinesi continuano a utilizzare olio da cucina per far funzionare macchine e taxi. «Da mesi, ormai, Gaza sa di patatine fritte andate a male», racconta Motasem Dalloul, giornalista indipendente di Gaza City. ­«E non­ è solo questione di puzza – aggiunge mostrando un rapporto rilasciato in maggio dal Dipartimento di chimica dell’Università Islamica di Gaza ”: bruciare biocombustibile provoca l’emissione di tossine e molecole di acidi grassi insaturi che sono considerati estremamente pericolosi per il corpo umano». Motasem spiega che in primavera, quando la storia dell’olio da cucina è cominciata, per qualche giorno la gente ha girato con i fazzoletti sulla bocca. «­Poi – conclude laconico – il rischio di ammalarsi precocemente di cancro è ­entrato nell’incredibile ordine delle cose ”normali” che possono accadere se vivi sotto assedio». La mancanza di carburante tiene anche fermi camion per i rifiuti: 1.000-1.200 tonnellate di spazzatura al giorno, il 65% delle quali di materia organica (Dati del ministero della salute per il Governatorato di Gaza). Il servizio di raccolta dovrebbe essere garantito dalle singole municipalità (aiutate in questo dall’Unrwa, l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi, che si occupa della raccolta nei campi profughi). Ma senza mezzi, tutto si complica. I palestinesi si sono così inventati un porta a porta utilizzando asini, carretti e qualche ruspa. Le distanze da percorrere, fortunatamente, sono relativamente brevi. La spazzatura viene smistata in tre discariche: una a nord, una nella parte centrale dell’enclave, una a sud. Un recente rapporto dell’Oms denuncia la necessità di costruire nuove. Ma, ci risiamo, la chiusura dei confini impedisce l’ingresso di materiali e attrezzatura per edificarle. Così, le tre discariche, prive di qualsivoglia manutenzione, finiscono per inquinare il terreno. Che inquina la falda. Che inquina l’acqua. Che inquina l’aria. A modo suo, un perfetto ciclo ambientale. Peccato funzioni al contrario. Barbara Uglietti