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 2008  agosto 06 Mercoledì calendario

Il doroteo che divenne «viceré» Gava in fin di vita a Milano. Corriere della Sera 6 agosto 2008 In fin di vita

Il doroteo che divenne «viceré» Gava in fin di vita a Milano. Corriere della Sera 6 agosto 2008 In fin di vita. Antonio Gava, più volte ministro, ex big della Democrazia cristiana, parlamentare in cinque legislature e quindi a lungo protagonista della politica italiana, 78 anni compiuti il 30 luglio, è in condizioni gravissime all’ospedale San Raffaele di Milano. Dove è in cura da tempo. Ha ricevuto l’estrema unzione. Arriva la notizia che l’ultimo viceré di Napoli sta morendo a Milano, in un letto dell’ospedale San Raffaele. Non è mai facile chiamare i potenti con il soprannome che gli è stato dato: però con Antonio Gava – gran capo democristiano della Prima Repubblica e leader adorato della corrente dorotea in Campania, straordinario gestore di tessere, affari, uomo politico in grado di favorire la nascita di governi, di creare segretari di partito, con De Mita che gli deve l’elezione a segretario, con Forlani che ancora lo ringrazia per il tradimento contro lo stesso De Mita, e con Andreotti e Craxi che da lui ebbero il permesso di far nascere il Caf – ecco, con Antonio Gava potevi davvero spingerti fino a chiamarlo come lo chiamavano tutti, viceré, appunto, e lui no, non si dispiaceva; piuttosto si schermiva, diceva che erano fantasie di giornalisti comunisti. Solo un autentico uomo di potere reagisce così. Ma Gava era, è stato il potere. Finché, nel 1993 (all’epoca capogruppo al Senato) i carabinieri gli suonano alla porta. Mandato di arresto, l’accusa è di essere amico dei camorristi, di essere «boss figlio di boss» (come disse Francesco Cossiga), l’accusa è di aver controllato e sedotto Napoli barattando i voti con tutto, persino con i loculi del cimitero. Al maresciallo che gli notifica l’ordine, «lei è Antonio Gava?», lui risponde: «Lo ero». Poi s’impunta, spiega di essere stato ministro dell’Interno e pretende di essere portato al carcere militare di Forte Boccea. Segue un processo durato tredici anni e due mesi e conclusosi, in Appello, con l’assoluzione definitiva. «Se voi giornalisti siete onesti, ogni volta che vi capiterà di farlo, dovrete scriverlo: Gava è stato assolto». Ma tredici anni sono un’epoca, in politica. Così segue anche una richiesta di maxi-risarcimento allo Stato. Gava lamenta «un danno di immagine e poi pure un danno morale e fisico ». La politica gliel’ha devastato, il fisico. Due ictus, un’operazione alla prostata, un coma dal quale uscì raccontando di aver sognato il Padreterno: «Signore, dammi altri due giorni, fammi preparare, e poi lascio». Ironico – «la politica è come il Lotto: l’importante è stare tra i primi 90 numeri » – intelligente, lucido, certamente cinico, scettico sugli uomini e, quindi, profondo conoscitore delle loro debolezze. Però mai ottuso, mai insensibile, mai modesto. Ugo Baduel, grande inviato speciale dell’Unità, raccontò come Gava riceveva nel suo lussuoso appartamento di via Petrarca, a Posillipo. Egli compariva di solito all’improvviso, nel salone, spuntando da una porta, la porta di un cubo di cemento, una sorta di piccolo bunker casalingo, attrezzato come per accogliere riunioni assai riservate: Gava incedeva verso gli ospiti indossando una lunga vestaglia rossa, di raso, con i risvolti neri. In mano teneva un sigaro. Su un dito, luccicava un grosso anello, vistoso e pacchiano. « ’U ciciniello, tiene ’u ciciniello », si raccontavano, in quegli anni, i napoletani, ben sapendo che quel genere di anello è in dotazione solo agli uomini d’onore. E Gava, a chi gli chiedeva perché mai se lo lasciasse baciare, ’u ciciniello, ha sempre risposto: «Una volta sola, è capitato. Una sola volta perché un mezzo segretario della Dc di Gragnano, un po’ cretino, si chinò per baciarmelo. C’era un fotografo, e da lì è nata la fiaba. Che, tra l’altro, non tiene conto di un dettaglio decisivo: a me, la saliva fa pure schifo». Ironico, si diceva. Certo: e anche malleabile. Ma solo apparentemente. In realtà irremovibile, e poi duro, se necessario, tenace (trattò con terroristi e camorristi per la liberazione del suo fedelissimo Ciro Cirillo) e poi soprattutto svelto a capire le situazioni. Per dire: sbarcò a Roma, alla Camera, nel 1972, cioè giusto un anno prima che il colera a Napoli travolgesse la sua poderosa e ricca macchina politica. Dal padre Silvio, cresciuto nel Partito popolare di don Sturzo e senatore nel collegio di Castellammare di Stabia, aveva ereditato una imponente rete di conoscenze, amicizie e incarichi: Banco di Napoli, Cassa per il Mezzogiorno, Ente Porto. Ma quando i napoletani, infestati dai vibrioni delle cozze, cominciarono a chiamarlo don Antonio Fetenzia, lui era già lontano. A preparare il ritorno. Che coincide con il terremoto in Irpinia e a Napoli del 1980, con il bradisismo di Pozzuoli tra l’84 e l’85. Sciagure a catena che portano però soldi pubblici e appalti, e che di riflesso alimentano una micidiale sfida, tutta interna alla Dc, tra lui e Paolo Cirino Pomicino, il medico che invece delle corsie d’ospedale preferisce l’attività sindacale e quindi la politica attiva, la Dc, intuendo che a Napoli serve un condottiero capace di osare e di spezzare, per conto di Giulio Andreotti, il monopolio, appunto, di Antonio Gava. Siamo, come è agevole intuire, dentro la memorabile stagione che farà di Napoli il vero laboratorio dell’ultimo potere democristiano. Quello che poi verrà travolto da Tangentopoli. Gava, appena tre anni fa, diceva che i «magistrati, questi gran cornuti, sapevano tutto da sempre, sapevano che i partiti si finanziano illecitamente, ieri come oggi. Però i comunisti li hanno lasciati stare, Craxi aveva proprio ragione, e hanno tolto di mezzo soltanto un partito, la Dc». Così, in una delle ultime interviste, spiegò di aver preso a votare per Silvio Berlusconi. Fabrizio Roncone