Il Sole 24 Ore 3 agosto 2008, Giuseppe Scaraffia, 3 agosto 2008
Balzac nell’isola d’argento. Il Sole 24 Ore 3 agosto 2008 «Viva il 1838, qualunque cosa ci porti! Che importa quanti dolori nasconde nelle pieghe dell’abito? C’è un rimedio a tutto e quel rimedio è la morte, e non mi fa paura», mugugnava Honoré de Balzac all’alba del primo gennaio
Balzac nell’isola d’argento. Il Sole 24 Ore 3 agosto 2008 «Viva il 1838, qualunque cosa ci porti! Che importa quanti dolori nasconde nelle pieghe dell’abito? C’è un rimedio a tutto e quel rimedio è la morte, e non mi fa paura», mugugnava Honoré de Balzac all’alba del primo gennaio. Tutto gli sembrava lugubre, persino il tintinnio delle campane. Stava per compiere quarant’anni e la sua posizione letteraria e sociale era ampiamente insoddisfacente. Se si guardava indietro, vedeva trenta romanzi composti in diciassette anni di sforzi ininterrotti ma, soprattutto, una massa di debiti. Aveva accettato di scrivere in venticinque giorni La storia della grandezza e della decadenza di César Birotteau, la parabola di un profumiere prima trionfante e poi sconfitto dagli speculatori. Per riuscirci aveva lavorato giorno e notte, senza per questo mettere da parte La Maison Nucingen, che stava componendo. Ne era uscito in uno stato di abbattimento inesprimibile. I critici, che non gli perdonavano l’inarrestabile creatività, non lo consideravano all’altezza di Victor Hugo. Ma le sue vendite erano lontane da quelle di un autore popolare come Eugène Sue. Aveva un bel l’ignorare gli attacchi dei giornali che gli rimproveravano le prolissità descrittive. Gli era arrivata lo stesso la notizia di una stroncatura dell’ultimo libro intitolata ironicamente «Grandezza e decadenza di Honoré de Balzac». Invece di lasciarsi scoraggiare, Balzac decise di tentare una carta decisiva, quella che avrebbe potuto rovesciare per sempre la sua incerta sorte. Sarebbe bastato rimettere in funzione le miniere d’argento sarde da tempo abbandonate. L’idea gliel’aveva data un commerciante di Genova, un certo Giuseppe Pezzi, che si era anche impegnato a mandargli dei campioni di minerale da analizzare. Lo scrittore non li aveva mai ricevuti e, nei momenti di pessimismo, temeva che Pezzi avesse deciso di agire da solo. Prima di salpare per la Sardegna, aveva deciso di passare a salutare George Sand nel castello di Nohant. Voleva anche sgridarla perché aveva lasciato bruscamente il suo amico Jules Sandeau. Ma quando l’aveva trovata sola vicino al focolare, assorta nel suo sigaro, gliene era passata la voglia. Nei momenti di massima concentrazione, la Sand assumeva un’aria stupida. Al contrario del suo visitatore non aveva nemmeno un capello bianco, ma le era venuto il doppio mento. Aveva dei bei pantaloni rossi e delle pantofoline gialle molto civettuole, ma i suoi grandi occhi erano pieni di tristezza. Man mano che l’ascoltava, Balzac si convinceva che le loro vite erano quasi identiche. Entrambi lavoravano follemente. Lei andava a dormire alle sei e si alzava a mezzogiorno. Lui si coricava alle diciotto per svegliarsi a mezzanotte. Tuttavia, mentre discutevano sulla necessità di emancipare le donne, Balzac aveva dovuto ammettere la virilità dell’amica: era diventata praticamente un uomo. «La donna attira e lei respinge e, se fa quest’effetto a me che sono molto uomo, deve farlo anche sugli uomini che mi somigliano. Sarà sempre infelice». La tristezza di queste meditazioni era stata attenuata dalla scoperta di un nuovo tipo di narghilé, l’houka, in cui bruciava un tabacco profumato che alleggeriva il peso della vita e rendeva più limpida la mente. Peccato che l’effetto svanisse appena l’houka si spegneva. In ogni caso, Honoré sognava di assuefarsi alla nuova droga per sfuggire alla tirannia del caffè che lo sosteneva nelle interminabili notti di lavoro. Sempre alla caccia di nuovi lussi, sognava di inserire in cima alla canna dell’houka che si sarebbe comprato il pomo del suo celebre bastone da passeggio tempestato di turchesi donati dalle sue ammiratrici. Cullato dalla speranza, faceva il misterioso anche con l’amata quanto tradita contessa Hanska. «Mi è impossibile parlarvene perché sono vincolato al segreto più assoluto». Con la sua eloquenza aveva travolto amici e famigliari, e persino il suo sarto e il suo medico, che per l’ennesima volta gli avevano aperto il portafoglio per finanziare la spedizione. Aveva viaggiato arrampicato sull’imperiale della diligenza per cinque giorni. A Marsiglia aveva le mani talmente gonfie che riusciva appena a tenere in mano la penna. Per risparmiare mangiava pane e latte. Nel lurido alberghetto in cui si preparava a partire era assediato dai dubbi. «Se la mia impresa fallisce, mi butto a corpo morto nel teatro». Sbarcato ad Ajaccio dovette passare cinque giorni in quarantena. I sardi temevano che il colera, manifestatosi mesi prima a Marsiglia, li raggiungesse. Lì rischiò la pelle per difendere un asino assalito da una muta di molossi. Solo la sciabola di un giovane sottotenente riuscì a salvarlo. Non sapendo come ammazzare il tempo andava a leggere Richardson nella biblioteca comunale. I corsi gli sembravano dei selvaggi sovranamente pigri. La cultura era totalmente assente. Non esistevano teatri, né giornali, né circoli. «Godo di un incognito assoluto. Non hanno idea di cosa siano la letteratura e la vita». La casa natale di Bonaparte era una "povera baracca", ma ciò non faceva che esaltare il coraggio dell’imperatore, con cui Balzac si identificava. Per approdare in Sardegna ci vollero cinque giorni sul barcone dei pescatori di corallo. La caccia al tesoro si stava rivelando più faticosa del previsto. Costretto a mangiare un’atroce zuppa di pesce, dormiva all’aria aperta, tormentato dalle pulci. L’isola gli apparve, come riferisce lui stesso, molto primitiva, ma la delusione peggiore lo attendeva ad Argentiera, dove doveva scoprire che una società si era già assicurato lo sfruttamento delle miniere. Riassumendo brutalmente il suo fallimento, scriveva alla contessa: «Sono stato in Sardegna, non sono morto, ho trovato il guadagno che avevo intuito, ma il genovese se ne era già impadronito». Poi aggiungeva, citando una celebre battuta di Molière: «Non sgridatemi, perché bisogna consolare i vinti. Vi ho molto pensato durante questo viaggio avventuroso e ho immaginato che mi avreste ripetuto spesso: Cosa diavolo andava a fare in quella galera?». Giuseppe Scaraffia