Il Sole 24 Ore 3 agosto 2008, Gilberto Corbellini, 3 agosto 2008
Così la morte ci aprì il cuore. Il Sole 24 Ore 3 agosto 2008 Tra gli accadimenti del 1968, va senz’altro ricordata anche l’introduzione di una nuova definizione di morte
Così la morte ci aprì il cuore. Il Sole 24 Ore 3 agosto 2008 Tra gli accadimenti del 1968, va senz’altro ricordata anche l’introduzione di una nuova definizione di morte. Il 5 agosto di quaranta anni fa, il «Journal of the American Medical Association» pubblicava il «Rapporto del Comitato ad hoc della Harvard Medical School per esaminare la definizione di morte», che definiva il «coma irreversibile», concetto proposto nel 1959 dai neurologi francesi Mollaret e Goulon, come nuovo criterio di morte clinica. Da quel momento la «morte cerebrale» diventava, a tutti gli effetti, la "vera" morte, accertabile constatando a intervalli regolari l’assenza di riflessi, risposte motorie e respirazione spontanea (apnea), e stabilendo la causa del coma, ovvero escludendo possibili fattori confondenti (ad esempio ipotermia, overdose di farmaci, eccetera). La presenza di tutte queste condizioni implica che il cervello, nella sua interezza, è irreparabilmente danneggiato. Perché fu cambiata la definizione di morte? L’invenzione nel 1952 del ventilatore meccanico da parte del medico danese Bjorn Ibsen consentiva le cure intensive, cioè di salvare la vita a pazienti comatosi che prima morivano, ma provocando anche gravissimi disturbi della coscienza. Nel 1957, Pio XII, nel famoso discorso agli anestesiologi in cui introdusse la distinzione etica tra mezzi ordinari e mezzi straordinari di sostegno vitale, chiedeva ai medici di stabilire, scientificamente, quando le «funzioni vitali» devono essere davvero considerate indicatori della presenza di «vita umana». Lo sviluppo della medicina dei trapianti, che richiedeva l’espianto di organi ancora efficienti per aumentare le chances di successo, e il clamore del primo trapianto di cuore realizzato da Christian Barnard nel 1967 giustificavano, sulla base di un principio di beneficialità, la donazione di organi prelevati da individui che avevano «irrimediabilmente perduto la coscienza». A esprimersi in questi termini era l’anestesiologo di Harvard, estensore del rapporto e bioeticista ante litteram, Henry Beecher. Che cosa è accaduto da allora? Le linee guida utilizzate oggi per accertare la morte cerebrale sono aggiornate a metà degli anni 90 e rimangono valide. Uno studio pubblicato pochi mesi fa su «Neurology» dimostra però delle differenze nell’applicare tali linee negli Stati Uniti. Ragion per cui i massimi esperti dei disturbi della coscienza invitano i neurologi a prestare la massima attenzione ai criteri diagnostici per evitare errori clinici. Ma perché i neurologi rischiano di sbagliare nella diagnosi di morte cerebrale? Perché dal coma si può uscire con gravi menomazioni della coscienza, che sono delle condizioni cliniche diverse dalla morte. Dal 1972 si conosce la condizione di stato vegetativo, un ulteriore artefatto delle cure intensive, in cui i pazienti escono dal coma recuperando la vigilanza (aprono gli occhi, hanno un normale ciclo sonno-veglia e possono manifestare alcuni riflessi comportamentali), ma non la consapevolezza di sé e di ciò che gli sta intorno. Una nuova entità clinica è stata riconosciuta nel 2002, vale a dire gli stati di coscienza minima, dove si manifestano alcuni segni di comportamento volontario, ma senza capacità di comunicare funzionalmente. Non va dimenticato che, accanto a queste condizioni, si conosce dal 1966 la sindrome «chiuso dentro», cioè la terribile condizione di pazienti che recuperano la coscienza ma rimangono incapaci di muoversi e parlare, e possono comunicare solo con il movimento degli occhi. Le domande con cui si stanno confrontando i neurologi sono impegnative e drammatiche. Quali possibilità di recupero ci sono per i pazienti ai diversi stadi di uno spettro verosimilmente continuo che va dallo stato vegetativo fino al recupero completo della coscienza? Che cosa si prova a essere in uno stato vegetativo, o in uno stato di coscienza minima? Si soffre? Le nuove tecnologie del brain imaging possono migliorare la diagnosi? Non è questa la sede per riportare le complesse risposte che la neurologia può dare a queste domande. Anche tenendo conto dell’acceso dibattito intorno al caso di Eluana Englaro – in realtà troppo acceso e poco rispettoso delle persone e dei fatti empiricamente accertati – quello che si può dire è che per i pazienti il cui stato vegetativo è diventato persistente o permanente la probabilità di recuperare la coscienza è praticamente, anche se non assolutamente, zero. Un po’ migliori sono le chances per chi è in uno stato di coscienza minimale. Il fatto è che gli stati di coscienza sono il prodotto dell’integrazione funzionale di diverse strutture, prevalentemente a livello cortico-talamico, deputate a elaborare le informazioni che arrivano al cervello. Questo significa che le lesioni possono interessare alcune connessioni e lasciare intatte altre, e che, secondo l’entità della disintegrazione funzionale si avrà un diverso grado di silenziamento della consapevolezza di sé e dell’ambiente. Grande scalpore ha suscitato l’osservazione recente, effettuata con la risonanza magnetica funzionale, dell’attivazione non casuale di una particolare area del cervello in una paziente diagnosticata in stato vegetativo, che rispondeva a stimoli ambientali. Questa e altre osservazioni rafforzano chi considera la vita personale indisponibile, nell’azione di contrasto del diritto individuale di decidere, attraverso delle direttive anticipate, che non si vuole essere mantenuti in uno stato vegetativo persistente attraverso la somministrazione artificiale di liquidi e nutrimenti. In realtà, i dati clinici e le conoscenze sulle basi anatomo-funzionali degli stati di coscienza e delle attività cerebrali non coscienti legittimano il rifiuto da parte delle persone, quando sono coscienti, di un uso futuro, ai loro danni, di qualunque mezzo di sostegno vitale. In quanto trattasi sempre di mezzo straordinario, dato che impedisce la morte naturale e mantiene l’individuo in stati di disintegrazione della coscienza che possono, in linea di principio ma anche sulla base di considerazioni empiriche, essere accompagnati da gravi sofferenze. Data la gravità della condizione, il diritto di anticipare il rifiuto dei trattamenti deve valere anche per i pazienti con stati minimi di coscienza. Riconoscere il diritto di non vivere in condizioni innaturali e senza neppure poter comunicare eventuali sofferenze, non significa che la medicina deve abbandonare questi pazienti. Anzi. Fatto salvo il diritto di non essere mantenuto indefinitamente in uno stato di sofferenza e assenza di relazioni personali, chi ha perso l’integrità della coscienza dovrebbe essere oggetto di maggiori attenzioni e di speciale protezione, a cominciare dall’urgenza di investire in ricerche volte a stabilire cosa prova, e quindi per assisterlo in modo meno passivo e strumentale. Gilberto Corbellini