Il Sole 24 Ore 3 agosto 2008, Maurizio Ferraris, 3 agosto 2008
L’arte di mettere le parole in croce. Il Sole 24 Ore 3 agosto 2008 Prendiamo una qualsiasi edicola
L’arte di mettere le parole in croce. Il Sole 24 Ore 3 agosto 2008 Prendiamo una qualsiasi edicola. Ci si trovano giornali, settimanali, mensili dei tipi più vari, fumetti, classici della letteratura, cd, dispense, e, più nascoste, riviste e cassette pornografiche. Di tutto questo c’è una spiegazione abbastanza naturale. Ma se alziamo lo sguardo, o lo spostiamo a destra o a sinistra rispetto ai giornali, troveremo una massa di strani libretti, che non informano sull’attualità, non ci raccontano avventure e non ci fanno sognare nei modi più svariati. Sono le riviste di enigmistica, tantissime, facili e difficili, a colori e in bianco e nero, disposte intorno al loro capostipite, che vanta non so quanti tentativi di imitazione e porta una folata di grafica anni Trenta nel pieno del post-postmoderno editoriale. La loro è un’esistenza umbratile e singolare. Intanto, diversamente da tutti gli altri giornali presenti, non sono semplicemente destinati alla lettura ma, almeno altrettanto, alla scrittura. Una delle primissime riviste, racconta Bartezzaghi, sottolineava questa circostanza e marcava la propria differenza ontologica venendo posta in vendita con una matita. Non è, a ben pensarci, la sola singolarità di questi giornali. Oltre a chiedere di essere scritti dal lettore, diversamente dagli altri, che lo sono accidentalmente, per esempio quando dobbiamo annotarci un indirizzo, ci fanno delle domande, e, si noti bene, queste domande non sono su di noi, come può capitare sporadicamente nei test psicologici dell’estate, ma riguardano l’universo scibile, e, il più delle volte, chiedono qualcosa in forma sibillina: «in mezzo all’Europa». Uno magari risponderebbe, che so, «Praga», ma ci sono solo due lettere, e allora capisci che la risposta giusta è «ro», e la domanda si riferisce alla parola Europa. Figlio e fratello di enigmisti, titolare di rubriche famose, Stefano Bartezzaghi è la persona più adatta per raccontare una storia non semplice, che incomincia con gli acrostici babilonesi, prosegue con i quadrati di parole romani (se ne è trovato uno sul muro di una caserma dei vigili a Ostia), passa attraverso le complicazioni che, sullo stesso genere, aveva prodotto nell’alto Medio Evo Rabano Mauro, si ritrova nella cabala, ed evolve sino alla scoperta, che avviene, come tutte le invenzioni del secolo scorso, negli Stati Uniti, domenica 21 dicembre 1913. Sebbene anche qui ci sia, come per il telefono (e per il fascismo) un precursore italiano misconosciuto, Giuseppe Airoldi, che nel 1885 aveva sì inventato (e battezzato) le parole incrociate, ma non le caselle nere, che in tutta questa vicenda assolvono lo stesso ruolo che lo zero ha per il progresso dell’aritmetica. Alla preistoria seguono una storia e una geografia, che narrano dell’epidemiologia e delle varianti nazionali delle parole crociate, semplici in America, lambiccatissime in Inghilterra, aforistiche in Francia, giunte in Italia, nel 1925, e canonizzate nel 1932 dalla nascita della «Settimana enigmistica» che, peraltro, un modello anche grafico ce l’aveva pure lei, la rivista «das Rätsel», cioè «l’enigma». Gli austriaci, poi, avevano imparato a fare parole incrociate in Inghilterra durante la Prima guerra mondiale, prigionieri degli inglesi e bisognosi di passatempi. anche una storia di scomuniche e scissioni, perché all’apparire delle democratiche parole crociate (approvate solitariamente da Cecchi) sfingi e sciarade si autonominarono «enigmistica classica», e guardarono con degnazione le nuove venute. Le quali però non si dettero mai delle arie pretendendo di superare le sorelle maggiori, si accontentarono di essere delle rappresentanti della cultura di massa, come i fumetti (che nascono nello stesso periodo e anche in quel caso su un giornale americano), destinate anche a consacrazioni colte, come quella di Warhol o di Perec, ma anche dispostissime a un uso popolare e tutto sommato meno nocivo dei mezzi litri di vino che Soldati in America primo amore proponeva come svago domenicale italianissimo alternativo alla consuetudine americana dei cruciverba. Ma, oltre che parente ed erede di enigmisti, Bartezzaghi è anche allievo di Umberto Eco, dunque sensibilissimo agli esiti paradossali delle parole crociate, che ci consentono di leggere la realtà al contrario, attraverso un reticolo, e dunque di vedere nella pianificazione squadrata di New York, in avenues verticali e strade orizzontali tracciate e numerate all’epoca in cui Manhattan era in buona parte disabitata, e Broadway una pista indiana. Sembra la realizzazione del sogno di Borges della mappa dell’impero 1:1, osserva giustamente Bartezzaghi. E non solo, potremmo aggiungere. Le parole crociate in generale, con quegli strani mondi che vengono fuori dall’intreccio di parole e di definizioni bizzarre, e determinano la notorietà singolare di fiumi e golfi fuori mano, realizzano fantasie cabalistiche e biblioteche di Babele. Ma, al di là della mistica e della cabala, si direbbe che materializzino una teoria di Eco, quella della cooperazione tra l’autore e il lettore, e forse persino il sogno di Roland Barthes di un «testo di godimento», in cui non conta la trama ma, piuttosto, l’incrocio. Ecco, se vogliamo, l’unità profonda tra Barthes e Bartezzaghi, l’eventuale ircocervo Barthezzaghi, sta proprio nel «plaisir du texte», un piacere tanto più grande in quanto privo di qualsiasi sussiego. Maurizio Ferraris