Il Sole 24 Ore 3 agosto 2008, Andrea Casalegno, 3 agosto 2008
Cesare ad Alesia, così nasce la logistica. Il Sole 24 Ore 3 agosto 2008 Gallia, 52 a.C., fine settembre
Cesare ad Alesia, così nasce la logistica. Il Sole 24 Ore 3 agosto 2008 Gallia, 52 a.C., fine settembre. Caio Giulio Cesare sta per giocarsi in una sola battaglia il potere e la vita. L’intera Gallia, da poco sottomessa, è in rivolta, chiamata alle armi dal giovane re degli Arverni, Vercingetorige, che si è chiuso nella sua roccaforte di Alesia con 80mila guerrieri. Cesare, che lo incalza, è giunto sotto le mura con 50mila legionari. Ma alle sue spalle si sta avvicinando a marce forzate un esercito di 200mila Galli. Il Paese che gli ha dato fama e ricchezza sta per diventare la sua tomba? Nato nel 101 a.C., Cesare ha quasi cinquant’anni. Un vecchio, per quei tempi, deciso tuttavia a conquistare il potere in una Roma dilaniata da mezzo secolo di guerre civili. Le grandi famiglie patrizie, che occupano quasi tutti i seggi del Senato, l’organo in cui si concentra l’esperienza storica della res publica, si oppongono ai populares, che oggi definiremmo ceti medi, guidati dalle famiglie più ricche dei «cavalieri»: industriali e mercanti così chiamati perché in guerra hanno il diritto di combattere a cavallo. Potremmo dire, parafrasando un grande teorico militare, Karl von Clausewitz (1780-1831), che la guerra è la prosecuzione della competizione economica con altri mezzi. Conquista dei mercati, strategie di penetrazione, lotta, sfida, vittoria: il successo economico si esprime con il linguaggio degli eserciti. Le virtù che fanno vincere sono le stesse: coraggio, tenacia, fantasia, conoscenza del terreno, rapidità di decisione, velocità di esecuzione, capacità di valutare e motivare gli uomini. Clausewitz, generale prussiano al servizio dello zar Alessandro I contro Napoleone, definiva la guerra «il regno della fatica e del pericolo». Le virtù più importanti sarebbero, dunque, il coraggio e la resistenza. La guerra però, come l’industria, è un’impresa collettiva. Le virtù individuali non sono sufficienti. Per dirigere migliaia di uomini verso una meta comune è necessaria un’elevata capacità organizzativa, senza la quale il genio stesso è impotente. Per sei secoli, dal III a.C. al III d.C., Roma vinse, se non tutte le battaglie, tutte le sue guerre. Eppure i Romani non avevano la guerra nel sangue. Erano un popolo di contadini, non di nomadi predoni, come i Mongoli, i Vichinghi o i Tuareg. In battaglia li guidavano i consoli, che erano due e cambiavano ogni anno; non erano generali, ma cittadini seri e rispettati. Quando invase l’Italia, nel 218 a.C., Annibale distrusse più volte gli eserciti di Roma. Alla fine però Scipione detto l’Africano vinse a Zama, nei pressi di Cartagine, nel 202, e Annibale andò in esilio. Il segreto delle vittorie di Roma non è la ferocia in battaglia, né una tecnologia superiore, ma la capacità organizzativa. La legione è il prodotto, unico nella storia, di una razionalità paziente e inflessibilmente orientata al risultato. Lo stesso tipo di pensiero rese eterne nella pietra le Mura Aureliane, che ancora circondano Roma, l’immensa mole del Colosseo, il maestoso acquedotto chiamato oggi Pont du Gard, che riforniva Nîmes, una piccola città della Gallia, e rese eterne, raccolte e pubblicate nel Digesto dall’imperatore Giustiniano nel 533 d.C., le strutture portanti del diritto, nate dalla riflessione dei giureconsulti romani. La stessa semplicità si riflette nella laconicità della lingua latina, che ebbe in Cesare un maestro di stile, nel movimento potente e flessibile delle coorti sul terreno, nella struttura a scacchi del castrum e della città romana, nella ragnatela di strade disseminate in ogni parte dell’Impero, spina dorsale del benessere e della pax romana. Ogni legionario era un abile zappatore, capace di scavare fossati, innalzare terrapieni ed erigere fortificazioni anche di notte dopo una lunga marcia. Per inseguire le tribù germaniche di Ariovisto, che avevano sconfinato in Gallia, Cesare fece costruire sul Reno un solido ponte di tronchi, che venne smontato pezzo per pezzo alcune settimane dopo: un’impresa prodigiosa agli occhi delle tribù barbare, che contribuì non poco a diffondere il timore di Roma. Non meno importante per la vittoria era la rapidità di movimento delle legioni, frutto di una logistica perfetta. Nessun esercito pedestre fu mai altrettanto veloce. Al comando di Cesare la tappa abituale di 30 km poteva salire fino a 50, proseguendo anche tutta la notte. Cesare non s’impadronì della Gallia per diffondere la civiltà, ma per motivi assai più prosaici. Il suo avversario, Gneo Pompeo, era in vantaggio perché poteva contare sull’appoggio del Senato e su legioni devote a lui solo. Cesare aveva urgente bisogno di denaro e di truppe, e aveva un solo modo per procurarsele: una guerra vittoriosa. Il Senato affidava ai consoli, scaduto il mandato, il governo temporaneo di una provincia recente, per consolidare il potere di Roma. Nel 57 a.C. Cesare, trovato un accordo provvisorio con Pompeo, si fece assegnare la Gallia Narbonese, una sottile striscia di costa tra le Alpi e i Pirenei, che si addentrava nell’interno solo nella regione di Lugdunum (Lione). La sua intenzione era farne la base per sottomettere l’intera Gallia, che, per i lunghi capelli dei suoi abitanti, era detta Chiomata. Gli Elvezi, attaccati dalle tribù germaniche di Ariovisto, chiesero il diritto di passaggio nella Gallia Narbonese, per raggiungere la Spagna. Cesare lo negò, li respinse nelle valli dell’odierna Svizzera e ricacciò i Germani oltre il Reno. L’anno successivo estese il suo protettorato sulla Gallia centrale. Infine sottomise la Gallia Belgica, abitata da tribù celtogermaniche, raggiunse la costa atlantica e gli attuali Paesi Bassi e, non contento, guidò due spedizioni vittoriose in Britannia. Sotto una pace apparente covava però il desiderio di rivincita. Nell’estate del 52, mentre Cesare si trovava in Italia, l’intera Gallia insorse all’appello di Vercingetorige, re degli Arverni. Poiché i Galli erano combattenti valorosi ma indisciplinati, il giovane re impose la propria autorità con metodi spietati: le colpe minori erano punite con la mutilazione del naso e delle orecchie, le più gravi con il rogo. I Galli erano superiori di numero, soprattutto nella cavalleria. Ma non osarono affrontare le legioni e si rinchiusero nella roccaforte di Alesia. Il sito, dettagliatamente descritto da Cesare nei Commentari, fu individuato sin dall’Ottocento, grazie agli scavi ordinati da Napoleone III. L’oppidum di Vercingetorige sorgeva nei pressi della cittadina di Alise-St.-Reine, sul Monte Auxois, 418 metri sul livello del mare e 160 sopra la pianura di Launes. La fortezza era difesa da potenti baluardi naturali. Solo da un lato era aperta sulla pianura. Vercingetorige, convinto di aver preso Cesare in trappola, non temeva né un assalto, impossibile con forze inferiori, né un assedio, poiché sapeva che 200mila Galli si stavano avvicinando. Ma Cesare capovolse la trappola, facendo costruire a tempo di record 36 km di fortificazioni ad anello, con terrapieni, palizzate, fossati e torri di vedetta: 15 km rivolti verso le mura di Alesia e 21 km, a qualche centinaio di metri di distanza, a seconda del terreno, verso l’esercito che stava per giungere. Inoltre (si veda la scheda qui sotto) introdusse alcuni marchingegni di sua invenzione per rendere le difese ancora più efficaci. Nel perimetro difensivo vennero accumulate derrate e foraggio per resistere a oltranza. Una volontà ferrea e una logistica perfetta ottennero un risultato che ha dell’incredibile. La battaglia era moralmente vinta prima ancora di essere combattuta. Quando giunse l’esercito di soccorso, i legionari erano pronti a riceverlo. Tale era la loro fiducia nel capo, che neppure l’enorme disparità di forze li sgomentò. Mentre in Alesia gli assediati morivano letteralmente di fame, tutti i tentativi per liberarli fallirono con gravissime perdite. Per un mese intero, fra settembre e ottobre, i Galli assalirono dall’interno e dall’esterno i trinceramenti romani; ma furono sempre respinti. Nell’ultimo assalto si combatté lungo l’intero perimetro, su entrambi i lati. Poiché i legionari erano troppo pochi per difenderlo tutto, Cesare creò un corpo mobile che accorreva ove fosse necessario. Alla fine gli attaccanti si ritirarono e Vercingetorige si arrese. Il re degli Arverni si presentò davanti a Cesare e depose ai suoi piedi la spada, l’elmo e la corazza. In pochi mesi la Gallia venne pacificata. I celti riconobbero la superiorità dei vincitori e diventarono gli alleati più fedeli di Roma, assimilandone in meno di un secolo lingua, istituzioni, costumi. Già prospera grazie a un’agricoltura e a un artigianato assai evoluti, la Gallia si coprì di una fitta rete di strade, sulle quali viaggiavano assai più spesso dei legionari ogni genere di mercanzie. I villaggi si trasformarono in città di pietra, cinte di mura e ricche di templi, teatri, anfiteatri, terme e acquedotti che poco avevano da invidiare a quelli d’Italia. L’assimilazione creò un’unica civiltà gallo-romana, che rivolse un fronte compatto contre le successive ondate d’invasione dei popoli germanici. Ancora più impressionante si dimostrò la potenza civile e culturale di Roma quando, a partire dal V-VI secolo d.C., la tribù germanica dei Franchi conquistò a poco a poco tutta la Gallia, dandole il nome di Francia. I Franchi si impossessarono bensì del potere, gettando le basi della civiltà feudale, ma adottarono la lingua del popolo sconfitto. Il latino prevalse, caso pressocché unico nella storia, sulla lingua dei vincitori. La Francia si aprì al meglio della civiltà romana, basata sul senso dello Stato, sulla volontà di difenderlo, sull’efficienza delle istituzioni: un’eredità che noi italiani, eredi anagrafici dell’Impero, abbiamo in buona parte dilapidato. Andrea Casalegno