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 2008  agosto 07 Giovedì calendario

L’Osservatore romano, giovedì 7 agosto "Chiuso fra cose mortali / (Anche il cielo stellato finirà) / Perché bramo Dio?"

L’Osservatore romano, giovedì 7 agosto "Chiuso fra cose mortali / (Anche il cielo stellato finirà) / Perché bramo Dio?". il primo lampo religioso di Giuseppe Ungaretti, reperibile in Dannazione del 29 giugno 1916, cui segue, stessa data, Risvegli, dall’annientante: Ma Dio cos’è? Uno sguardo alle Concordanze - edite nel 1993 dall’editore Olschki - fornisce rivelanti ricorrenze ai lemmi "Cristo", "Dio" e "Signore", ma se teniamo da subito presente la data della settimana santa del 1928 - momento della conversione - relativamente poche sono le frequenze dei sacri nomi precedenti l’evento. Giusto del 1828 è La Pietà, poesia nella quale, mentre si dichiara ferito, inquieto, malinconico, debole fra uomini deboli ("fiumana d’ombre"), chiede: "Dio, coloro che t’implorano / Non ti conoscono più che di nome?", e poco dopo: "E tu non saresti che un sogno, Dio?". Pure del 1928 è La preghiera, ma qui il Signore è un "sogno fermo", un rasserenante patto tra Lui e gli uomini. Nato ad Alessandria d’Egitto l’8 febbraio del 1888 da famiglia italiana proveniente dalla Lucchesia, gente rigorosamente religiosa, madre pia e tollerante, Ungaretti lascia ventiquattrenne la città natale per Parigi. Conosce l’Italia ma non vi approda che nel 1914, a Milano, da dove si trasferisce poi a Roma, nel 1921, dopo aver pubblicato Il porto sepolto (1916) e Allegria di Naufragi (1919). Biografia e bibliografia di Ungaretti sono talmente note, e il tema di queste righe talmente pregnante, che non c’è spazio per ripercorrere vita od opere se non in rapporto al motivo assunto (per comodità si ricorda che Sentimento del tempo esce nel 1933, Il dolore nel 1947 e La terra promessa nel 1950). Della religione che vede praticata in Egitto, il giovane Ungaretti è colpito dai precetti che aderiscono alla sensualità, a cominciare dalla condivisione, da parte dei fedeli arabi, di ogni atto della propria vita, anche fisica, con la divinità, ma al momento della rivelazione cristiana quella dimensione trasmuterà in lui in un discorso di ricca e piena e viva verità umana dentro un ben altro discorso d’amore. Poi, per lui la religione sarà più propriamente speranza, se pur di fronte al mistero, e la poesia, da quando diventerà la fondante forma della sua espressione, atto di liberazione secondo una nozione di libertà che è nozione stessa di Dio: "Il sentimento della libertà è poesia, slancio di comunione con il divino, con Iddio il quale è libertà intatta, onnipotenza pura". Semplice a volte e a volte impossibile risalire alle origini d’una sia pur dichiarata e datata svolta religiosa: in Ungaretti se ne colgono tracce dagli esordi nonché un definitivo sigillo nell’inoltrata vecchiaia: stratigrafia dell’anima che alla fine ci consegna in un altalenante, ma assiduo seguito di accensioni, transiti, lieviti, tensioni e fermenti. Non si assesta d’un tratto, in lui il credente, anche se la dichiarazione è inoppugnabile e circostanziata. "Nel 1928, dal Monastero di Subiaco dove avevo trascorso ospite una settimana, di ritorno da Marino dove allora risiedevo, d’improvviso - in quell’anno mi sarebbero nati gl’Inni - seppi che la parola dell’anno liturgico mi si era fatta vicina all’anima. Non che, nella sua attuale perennità, quella parola non mi trovasse a volerla amare, da lunghi anni intento. Nella parola mi ero affannato sino dai miei inizi...". L’eterno, la verità, la pietà, l’innocenza: non c’è un solo istante in cui la poesia di Ungaretti non muova da un’aspirazione in qualche modo religiosa, ma da quel momento in poi si fa più scavato e fisso il rapporto con le leggi inconoscibili della storia, del millenario operare dell’uomo via via più schiavo di un transito terreno complesso e stritolante. "Una civiltà minacciata di morte mi induceva a meditare il destino dell’uomo e a sentire il tempo, l’effimero, in relazione con l’eterno. La mia poesia stava per non accorgersi più di paesaggi e accorgersi invece con estrema inquietudine, perplessità, angoscia, spavento, della sorte dell’uomo". Egli stesso è diviso, anche se dentro di sé ha deciso, tra appagamento e interrogazione, preghiera e angoscia, felicità e spavento, deserto e "terra promessa". Canzone e grido. A suo tempo, ogni cosa: molto di tutto ciò già verificato, molto da vivere da qui in avanti e sino alla fine. Il buio che dentro di sé cerca di diradare, si infittisce nel mondo; tra gli uomini e la verità la frattura si fa abissale; il pensiero umano naufraga in un suo fondo inferno materialista. Da quando Ungaretti si fa esplicitamente cattolico, le antiche sinopie religiose della sua poesia si animano di una inedita fede in cose supreme, quelle stesse che Mario Apollonio aveva accreditato da tempo ai versi del poeta e del compagno di strada, lingua del vivere e dell’essere. Ungaretti si era recato a Subiaco in vicinanza della Pasqua del 1928 ospitato dall’amico don Francesco Vignanelli - anche lui prima incredulo, nonostante avesse un fratello monaco nell’abbazia di Montecassino, poi convertitosi e frate benedettino. Non era la prima volta che si recava alla grotta del "Sacro Speco" della cittadina laziale: nel 1925 vi era giunto con la moglie Jeanne Dupoix (morta nel 1958), ma ora arrivava in treno, in profonda crisi religiosa, per la liturgia pasquale e per partecipare agli esercizi spirituali. "M’hai discacciato dalla vita. // Mi discaccerai dalla morte?". un altro distico de "La pietà". E poi: "Fulmina le mie povere emozioni, / Liberami dall’inquietudine. // Sono stanco di urlare senza voce". Sarà l’asciuttezza, la secchezza della pronuncia, la sua sconvolgente intensità sempre abitata dall’anima, ma ogni parola sembra rimandare a un assoluto. Questa la prima risoluta manifestazione d’una "consegna" a Cristo; questa la fine della lunga e a volte inconscia aspettazione di una fede che: "Anche se altre mire prima mi seducevano, nella mia persona dissimulandosi non cessava d’attendere". Cos’altro opporre alle parole di una lettera di poco prima a Jean Paulhan - Je ne vais pas me convertir, mais essayer de trouver un peu de repos. Je suis très profondement païen, et tout de même j’ai l’âme chrétienne - se non la speranza del Nome dentro l’orrore del vuoto?; l’ansia del sacro, o d’un registro "alto", dentro il dubitoso perdurare di un’assenza ontologica?; una religiosità già scavata e sgomenta di fronte all’ultima protesta dello scetticismo? Ma se di ogni conversione è giusto, interessante, doveroso, conoscere sintomi e segnali, non meno giustificato, attraente, necessario, verificarne la tenuta e la coerenza nel passare del tempo. Per Ungaretti, una sorta di metafisica prova del nove, o di giobbico assalto al baluardo del suo credo, avviene un decennio dopo il fatidico, o meglio il provvidenziale 1928: il figlio Antonietto ha nove anni quando, per una diagnosi errata, muore di peritonite a metà del 1939. E sarà il tempo di un improgettato, imprevedibile dolore che esigerà quasi altri dieci anni per vedere la luce come omonima raccolta. Nella vita, nella memoria, nell’anima, riappare il dramma manzoniano espresso nell’inossidabile Natale del 1833. Strazio, tormento, sbigottimento, grido: una consonanza che lo terrà, in così assediato fortilizio della fede, ancorché colpito e travolto, saldo e salvato ("Ora che osano dire / le mie blasfeme labbra: / "Cristo, pensoso palpito, / Perché la Tua bontà / S’è tanto allontanata?""). Ma è però vero, e in ciò sta il segno della autenticamente cristiana redenzione del suo dolore, che l’ interrogativo posto da Ungaretti non è a scudo esclusivo del suo dramma. Stando tempi di bellica tragedia europea, il poeta conclude: "Cristo, pensoso palpito, / Astro incarnato nell’umane tenebre, / Fratello che t’immoli / Perennemente per riedificare / Umanamente l’uomo, / Santo, santo che soffri, / Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli, / Santo, santo che soffri / Per liberare dalla morte i morti / E sorreggere noi infelici vivi, / D’un pianto solo mio non piango più". Corrispondenza cercata e raggiunta, nell’infinito Dio di tutto e tutti, del dolore singolo e universale. Non sarà ancora la catarsi assoluta, ma è certo il momento pieno ed esaltante nella fede in una provvidenza che agisce nella storia. Il dono della conversione continua a mettere anima nelle parole. La rivelazione in lumine crucis ha definitivamente liberato l’uomo e il poeta dal suo pianto solitario e disperato. Claudio Toscani