Francesco Manacorda, La Stampa 6/8/2008, 6 agosto 2008
Barbara Harvey ha perso il posto di impiegata e la casa che doveva finire di pagare; le ultime notizie la danno residente in un Suv Honda parcheggiato a Santa Barbara, California
Barbara Harvey ha perso il posto di impiegata e la casa che doveva finire di pagare; le ultime notizie la danno residente in un Suv Honda parcheggiato a Santa Barbara, California. Charles «Chuck» Prince ha perso il posto di numero uno della Citigroup ma si è portato a casa - lui un tetto sulla testa ce l’ha ancora - una buonuscita da 95 milioni di dollari. Alan Greenspan, l’uomo alla guida della Federal Reserve per quasi vent’anni, che con la sua politica di tassi bassi ha contribuito a gonfiare il boom immobiliare a stelle e strisce, ha perso forse la faccia e di sicuro la fiducia. «Questa crisi - ha scritto proprio ieri l’ex Governatore sul Financial Times - è differente: un evento che avviene una volta o due in un secolo, profondamente radicato nei timori di insolvenza delle maggiori istituzioni finanziarie». Come nel ”29, dunque, o addirittura peggio. Tre istantanee - meglio, tre scene dallo stesso film - dal Grande Freddo dei mercati: quel morbo che nasce locale, tra le case monofamiliari con patio e piscina della Florida e del Midwest, si trasforma in contagio globale prima che governi e grandi banche possano o sappiano fare qualcosa e oggi - proprio mentre si celebra mestamente il suo primo compleanno - congela ogni angolo del mondo finanziariamente civilizzato scatenando i suoi effetti anche sull’economia reale, quella fatta non di carta ma di fabbriche, uomini e donne. Che cosa è successo in questi dodici mesi e perché? E che cosa succederà adesso? La risposta alla prima domanda non è difficile. Basta premere il tasto «rewind» e sedersi a guardare. E’ il 6 agosto 2007 quando la American Home Mortgage, uno dei maggiori finanziatori di mutui negli Usa, licenzia in tronco tutto il personale e dichiara bancarotta. Già nei mesi precedenti gli scricchioli dei mutui «subprime», quelli concessi a chi non aveva un reddito fisso o sufficiente per pagare le rate, si sono fatti sempre più forti. Ma il crollo della American Home è l’inizio della fine: quei mutui avvelenati vengono sì dagli Usa ma sono ormai diffusi ovunque e a tutti i livelli. Per anni gli gnomi della finanza hanno lavorato alacremente a sminuzzare i prestiti a rischio e confezionarli in nuovi strumenti finanziari da vendere ad altre banche ed ai risparmiatori. «Diffondere il rischio», è la parola d’ordine ufficiale, mentre la convinzione - questa ufficiosa - è che diffondere il rischio in piccole dosi equivalga a ridurlo se non addirittura annullarlo. Ma può accadere - è accaduto - anche l’esatto contrario: tutti contagiati. Nel giro di settantadue ore, mentre in Francia la Bnp-Paribas sospende tre fondi d’investimento citando proprio problemi con i subprime, quello che era un raffreddore americano diventa una febbre mondiale. La Banca centrale europea teme il «credit crunch», la scomparsa dei fondi dal mercato e gioca d’anticipo inondando le piazze finanziarie di liquidità: in tre giorni immetterà 95 miliardi di euro nel sistema - in un mese arriverà a 250 miliardi - mentre la Federal Reserve e la Banca del Giappone fanno lo stesso. Interventi che serviranno a rallentare, non certo ad arrestare, la valanga. Nei mesi successivi l’intervento pubblico in economia assumerà caratteristiche choccanti: in settembre la Bank of England garantisce il salvataggio della banca Northern Rock. Gli Stati Uniti - patria del liberismo economico - stabiliscono nuovi record. Prima in marzo, pilotando la banca d’affari Bear Sterns a un atterraggio morbido, agevolato da 30 miliardi di prestiti della Fed, nelle braccia di JpMorgan Chase. Poi, sommo scandalo, con la nazionalizzazione di fatto da parte del Tesoro Usa di Fannie Mae e Freddie Mac, le due società che riassicurano i mutui concessi con tanta leggerezza negli anni scorsi. Abbiamo i «governi alle porte», scrive l’ex ministro dell’Economia Domenico Siniscalco, legando l’interventismo occidentale all’attivismo dei fondi sovrani d’Oriente che grazie alla corsa del petrolio possono permettersi di fare shopping quanto vogliono. Con risultati per ora non esaltanti. Il Grande Freddo dei «subprime» erode dall’interno, in modo sotterraneo, i bilanci delle banche: Citigroup svela perdite per oltre 40 miliardi di dollari. La svizzera Ubs - una tradizione di prudenza e sicurezza - arriva seconda con 38 miliardi di svalutazioni. Il presidente Marcel Ospel, come tanti suoi colleghi, se ne va tra i fischi degli azionisti. I gruppi italiani del credito schivano le grandi svalutazioni, ma non le batoste di Borsa. Metteteci anche il «furbone» Jerome Kerviel, il trader che fa sparire 4,9 miliardi dai conti della francese Société Generale e il quadro è completo. In tutto - si calcola - da un anno a questa parte le banche mondiali hanno bruciato 1.600 miliardi di dollari di capitalizzazione. I «bankers» di New York sfogliano adesso nervosi le guide per «expats», gli emigranti di lusso che trascinano le famiglie nel le nuove capitali della finanza: Dubai, il Quatar, Shangai. Il contagio si trasmette anche all’economia reale colpita da una serie di circostanze assai sfavorevoli che spingono l’inflazione. Il prezzo del petrolio, che solo adesso abbandona quota 120 dollari il barile, è la principale. Un caso? Proprio no: se si sgonfia la bolla immobiliare, se la finanza di sola carta diventa troppo rischiosa, i soldi della speculazione finiscono sulle materie prime, il gioco ricomincia con il greggio o con il mais. Aumenta l’inflazione e le banche centrali - specie quella europea - non possono certo abbassare i tassi. Casomai li alzano, come fa la Bce a inizio luglio portandoli al 4,25%, e rendono ancora più ardua la ripresa economica. Manca la liquidità? In parte sì, ma il vero problema è che anche chi ha soldi non sa come e dove spenderli perché latita soprattutto un’altra merce assai più deperibile che si chiama fiducia. I cento grandi banchieri internazionali che formano un circolo a sè non sanno ancora se dietro i bilanci stilati dai loro colleghi ci sia la realtà o qualcosa di assai meno gradevole. Basti vedere la mossa fatta appena una settimana fa da Merrill Lynch: ha venduto un portafoglio da ben 30 miliardi di titoli strutturati basati su mutui americani a soli 22 centesimi per ogni dollaro di valore nominale, uno sconto del 78% che nemmeno ai saldi di fine stagione. Che cosa succederà adesso? E’ la domanda a cui qualsiasi banchiere centrale o politico vorrebbe saper rispondere. Ma la risposta non c’è. «I mercati finanziari globali continuano a essere fragili e gli indicatori di rischio sistemico rimangono elevati», dice l’ultimo rapporto del Fondo monetario internazionale, pubblicato la scorsa settimana, che non rettifica la previsione di perdite che alla fine sfioreranno i mille miliardi di dollari. Anche le teste d’uovo del Fondo, insomma, non sanno dov’è la fine del tunnel e anzi mettono le mani avanti sul «rischio sistemico» e sulla possibilità che la crisi finanziaria si «travasi» nell’economia reale. Per ora accade il contrario: il calo repentino del petrolio deriva soprattutto dalle paure di un crollo della domanda negli Usa e - passate le Olimpiadi - forse anche in Cina. Anche le quotazioni del platino hanno perso in tre mesi oltre il 30% perché l’industria dell’auto, che usa il metallo nelle marmitte catalitiche, non tira. Nel Grande Freddo dell’economia anche i beni più preziosi non brillano più. Stampa Articolo