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 2008  agosto 05 Martedì calendario

Qualcuno volò sul nido del cucù. La Stampa 5 agosto 2008 La Svizzera? Non ha inventato altro che il cioccolato e l’orologio a cucù, amava dire Orson Welles, con la spocchia dell’intelligenza e la sciocchezza del sarcasmo

Qualcuno volò sul nido del cucù. La Stampa 5 agosto 2008 La Svizzera? Non ha inventato altro che il cioccolato e l’orologio a cucù, amava dire Orson Welles, con la spocchia dell’intelligenza e la sciocchezza del sarcasmo. Evviva la stupidità del luogo comune: la Svizzera linda ed esatta come un treno puntuale (oggi non è più vero: in questo si è davvero italianizzata), il Belgio stupido e sonnacchioso, secondo il perfido esiliato Baudelaire, l’Italia mafia e mandolino. Un’intelligente mostra e divertente, anche per l’allestimento tematico a labirinto ed il metodo poco metodico (anti-svizzero?) di esporre, da Füssli al pela-patate, dal cestino dell’immondizia anti-attentato alla serie di meticolosi disegni di Hodler, sul letto di morte dell’amata (che documentano il degrado del corpo, quasi fosse il profilo d’una vetta che collassa), dal modellino del trenino-giocattolo alla scultura corrosa e crollante di Giacometti, ebbene questa mostra dislocata in due sedi museali di Lugano tenta di penetrare entro quest’autentico «mistero» antropo-etnologico, per capire quanto siano nutritive e contraddittorie certe mitologie e ritualità, che avvolgono questo paese ingiustamente ricordato solo per la noia dei suoi lindori urbanistici alpini, le sue asettiche banche in stile 007, gli Swatch e il Toblerone. La mostra segna lo sbarco a Lugano, di uno dei nostri più affidabili curatori, Bruno Corà, e ha un titolo emblematico: «Enigma Helvetia». Perché in effetti tanto resiste la mitologia dell’esatto e del miniaturizzato (pensiamo agli orologi di precisione, ai micro-meccanismi al silicio, sino, giù giù, ai pizzi domestici gremiti di pazienza ossessiva) altrettanto non si può negare che esista di rimbalzo una «corda pazza» elvetica, maniacale ed imprevedibile. E forse non è caso: ad un sistema rigido e fortemente codificato (non si dimentichi che svizzero era De Saussure, l’«inventore» della semiotica e dunque dell’imperante strutturalismo Anni Sessanta) consegue spesso una reazione non meno spropositata e angosciata (la Zurigo della droga e del Letten, che anticipa il Sessantotto, gli sfondi polverizzati d’un pittore come Varlin o le claustrofobie drammaturgiche di un Dürrenmatt). Ad un mondo pesantemente formalizzato e geometrizzante (in anni di dominio dell’informale e della pop art, la Svizzera di Max Bill e d’un grafico come Steiner, lo «stilista» delle copertine Einaudi, è stata davvero una sorta di caveau protettivo del credo astrattista) si contrappone un universo di artisti tra i più eccentrici e visionari (dal biblico e fantasmatico Füssli, al fantasioso e fumista Klee, dal macchinoso e babelico Tinguely al sorprendente Töpffer, che «inventa» il fumetto nel tardo Settecento, dallo spettrale e caustico Vallotton a Ben Vautrier, che «cancella» la pittura, con quadri di parole, che vengono a gridarci che l’arte è morta. Ma potremmo citarne altri, dall’eroso Giacometti a Pipolitti Rist, da Le Corbusier a Balthus, che rivendicava una sua parte svizzera. Appunto: tutti pensano che siano italiani, francesi, austriaci, cancellando l’identità svizzera, buco nero incolmabile e disatteso. Ma basterebbe ricordarsi che Rousseau, passeggiatore solitario (contro Voltaire il francese) era svizzero, così come Jung vs Freud, Walser, il flâneur innocente contro il diabolico marciatore Baudelaire, che metteva tutto sullo stesso piano, «geni, zanzare, coccole e chiocciole» per intuire che quella svizzera è un’identità ben precisa e recondita. Fatta di suissitude (in un esemplare saggio-guida Pietro Bellasi allude ad una curiosa crasi «tra suicide e solitude»). La Svizzera, come mondo isolato delle vette inviolate e come isola terrestre di neutralità, circondata dalle tempeste delle guerre europee (non si dimentichi nemmeno che la simbolica Isola dei Morti di Böcklin è opera d’un artista svizzero, e che qui si è formato il Dadaismo, l’Art Brut, l’universo steineriano di Monte Verità, con eccentricità a gogo, anarchia, nudismo, antroposofia). Esiste, in una piccola chiesetta montana, un incredibile affresco primo-novecentesco, che pare una Danza Macabra, riscritta da un Ensor educato tra le vette alpine. Tutti teschi che si combattono, morti che vogliono la morte durante il primo conflitto mondiale: kepì e fez turchi, piume da bersaglieri, intellettuali con gli occhiali sulle orbite vuote, cadaveri di capitalisti alla Vesalio, col gruzzolo sotto gli omeri spenti. Sulla vetta, un’isola di benessere, secondo gli stereotipi dell’arcadia alpina, un paradiso che prosegue a mungere, guadagnare, pregare: quella è la Svizzera neutrale, che continua come un perpetuum mobile a ruotare ben oliata, un carillon da museo, che conserva vivo le tradizioni, come l’eden di Heidi. Appunto, mentre il mondo incivile delle guerre e dell’ideologia, crede ancora al tempo progressivo e finto-lineare della Storia, la Svizzera isolata insegna il non-tempo ciclico e calendariale delle stagioni, che ritornano, della quotidianità serena e verniciata di pace. Una purezza linda e apparentemente felice della «manutenzione» perenne, che spesso nasconde il verme subdolo della xenofobia più feroce e dell’angoscia più inarrestabile. Un narratore tutto svizzero come Zorn racconta la felicità sgangherata con cui accoglie finalmente il cancro devastante, che spaccherà finalmente il meccanismo perfetto della sua esistenza borghese. Lo spettro della montagna incantata. Marco Vallora