Corriere della Sera 5 agosto 2008, Eva Cantarella, 5 agosto 2008
Il doping dell’antica Grecia Invocare la dea della magia. Corriere della Sera 5 agosto 2008 Fenomeno antico, il doping: o meglio, l’equivalente di quello che oggi chiamiamo doping
Il doping dell’antica Grecia Invocare la dea della magia. Corriere della Sera 5 agosto 2008 Fenomeno antico, il doping: o meglio, l’equivalente di quello che oggi chiamiamo doping. Nell’antica Grecia non esistevano anabolizzanti e simili, ma i modi per gareggiare in condizioni di vantaggio rispetto agli altri concorrenti esistevano anche allora: e come oggi venivano puniti con la squalifica. In una società dai valori competitivi, qual era quella delle poleis greche, la vittoria era la prova del valore fisico e sociale. Nulla di più lontano dall’etica greca dell’idea di Coubertin: l’importante, per i greci, non era affatto partecipare, era vincere. Chi non riportava la vittoria provava tale vergogna, scrive Pindaro, da tornare a casa «per obliqui sentieri nascosti». Superfluo dire che in quest’ottica era indispensabile garantire che la gara fosse vinta da chi era veramente il migliore. Come dimostra quel che accadde quando, nel 720 a.C., durante la quindicesima Olimpiade, la tunica di Orsippo di Megara si aprì durante la corsa, e questi, più libero nei movimenti degli altri concorrenti, vinse la gara. All’Olimpiade seguente, racconta Pausania, tutti i corridori si presentarono nudi. Ma vi erano atleti che, a differenza di Orsippo, i vantaggi se li procuravano volontariamente. A quei tempi non si trattava di sostanze che miglioravano le prestazioni. Medicina e magia erano ancora molto vicine: nella «Teogonia» di Esiodo Ecate, la dea della magia, è la dea che concede la vittoria agli atleti. Se un atleta ingeriva una sostanza che poteva migliorare le sue prestazioni, dunque, non aveva violato le regole: a suggerirglielo poteva essere stato un dio. Erano altre le scorrettezze che costavano l’eliminazione. A darcene un esempio – il primo – è Omero: le Olimpiadi non erano ancora nate (la data ufficiale di nascita è il 776 a.C.), ma le gare atletiche erano già un evento importantissimo. Nella specie, si trattava delle solenni gare indette da Achille durante i funerali dall’amatissimo Patroclo: nella gara dei carri, Antiloco era giunto secondo, ma aveva superato Menelao, in una strettoia, spingendo i cavalli in modo da costringere il re di Sparta a cedergli il passo. I giudici di gara gli negarono il secondo premio. E con il passare del tempo la tentazione di fare ricorso a espedienti che falsavano la lealtà della gara aumentò. In un primo momento, dopo l’istituzione dei Giochi – quando alle gare partecipavano gli esponenti delle aristocrazie cittadine – il premio era solo simbolico: una corona di ulivo. Fu Solone, racconta Plutarco, colui che, per primo, offrì un premio in danaro: 500 dracme per una vittoria. Attendibile o meno che sia la notizia, certo si è che, nel tempo, i vantaggi concreti legati alla vittoria aumentarono: l’esenzione dalle imposte, ad esempio, o i pasti forniti a vita dalla città. Poiché la vittoria dava gloria anche alla città del vincitore, inoltre, le poleis iniziarono a pagare gli atleti perché potessero dedicarsi esclusivamente allo sport. Era nato il professionismo: e con esso cominciarono a verificarsi fatti in contrasto con lo spirito olimpico. Nel V secolo, Astilo di Crotone partecipò, riportando tre vittorie, a tre Olimpiadi consecutive: la prima volta per la sua città, le altre due per Siracusa. L’indignazione dei suoi concittadini fu tale che la sua casa venne trasformata in una prigione. E poi, fatto ancor più grave, fece la sua comparsa la vera e propria corruzione: nel 388 a.C. Eupolo di Tessaglia comprò tre avversari alla boxe, Callippo fece la stessa cosa durante la 112ª Olimpiade, Pausania cita una mezza dozzina di casi analoghi... Ahimé, neanche i greci erano perfetti. Eva Cantarella